Per gran parte del Novecento la commedia statunitense è stata il terreno di rappresentazione che ha posizionato nell’immaginario collettivo una galleria di (anti)eroi che hanno tradotto, talvolta in modo blando, talvolta in modo più spietato, le contraddizioni dell’individuo, toccando vette insuperate in termini di contenuto, forma e linguaggio della macchina da presa.
Si pensi alle formule della slapstick comedy o del comico dell’era del muto, alla commedia anni Venti, da quella più sentimentale di Chaplin alla tragicomica “Great Stone Face” di Buster Keaton, senza dimenticare la stagione della commedia anni Trenta e Quaranta con le aristocratic comedies di Lubitsch, quelle di impronta più sociale di Capra e le irriverenti situazioni delle commedie screwball di Hawks; e poi ancora Cukor, Sturges, La Cava, fino all’esaurimento della Golden Age classica con i lavori di Tashlin e Edwards.
Superando la prevedibilità delle commedie anni Cinquanta, quelle di Billy Wilder rappresentano a ben vedere un’eccezione: un profondo gusto mitteleuropeo, cupo e corrosivo allo stesso tempo, ha fatto sì che egli si appropriasse del genere comico per sviluppare un doppio binario tra risata e riflessione, un’iconoclastia personalissima sviluppata con un attacco ai pregiudizi e alle regole imperanti, una distruzione ai valori umani e alle frustrazioni dell’americano medio spesso unita al travestimento.
Il grande tema della maschera invero è un tòpos che ha segnato il mondo del regista austriaco sin da Frutto proibito (The Major and the Minor, 1942), per affacciarsi poi in Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1957) e Irma la dolce (Irma la Douce, 1963), ma è con A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1959) che il mascheramento si dispiega in un processo metalinguistico che porta a ragionare circa la settima arte, i codici che la compongono e il significato stesso dell’identità.
La fuga dei musicisti Jerry (Jack Lemmon) e Joe (Tony Curtis), testimoni involontari della Strage di San Valentino (1929) e costretti a fingersi donne per unirsi a un’orchestra femminile diretta in Florida, non è altro che il pretesto narrativo per ribaltare il gangster movie – sublime l’autoparodia offerta da George Raft nel ruolo del boss Spats “Ghette” Colombo – e piegarlo al giogo della commedia en travesti, in un travolgente plot in cui la strategia della maschera non solo porterà entrambi alla salvezza, ma avrà risvolti non indifferenti.
I personaggi di Joe e Jerry da un certo punto di vista si allineano con quelli di Dustin Hoffman in Tootsie (1982) e di Robin Williams in Mrs. Doubtfire (1993), esempi di performance attoriali in cui il crossdressing viene debitamente motivato dall’ingaggio lavorativo nel caso del film di Pollack e dal tentativo del ricongiungimento familiare nella commedia di Columbus.
Nell’opera di Wilder invece il sassofonista Joe assume i panni di Josephine spinto dalla necessità di sopravvivenza, per fingersi poi un annoiato e impotente miliardario per fare colpo sulla cantante Zucchero Kandinski (Marilyn Monroe). Dall’altro lato il contrabbassista Jerry, magistralmente interpretato da Lemmon tramite un’alternanza tra sottrazione e overacting, si troverà pian piano a suo agio nelle vesti di Daphne, arrivando a non disdegnare il corteggiamento di un vecchio ricco spasimante e ad arrendersi alle sue lusinghe a ritmo di tango.
Il leitmotiv del mascheramento coinvolge d’altronde anche Zucchero, disincantata cantante e suonatrice di ukulele, la quale mente a sua volta pur di conquistare il finto miope erede della Shell Petroli, per poi trovare l’amore nel vero scapestrato Joe. La maschera non solo permette l’indagine sulla sessualità e sulla ridefinizione del concetto di gender ma offre anche uno sguardo sulla “vera” storia della Monroe, come se il disincanto di Zucchero, in perenne ricerca di essere considerata, desiderata e apprezzata, fosse la parabola di Norma Jeane e dell’immagine affibbiatale dall’industria.
L’artifizio è strettamente connaturato al suo personaggio e lo rende un manifesto del percorso artistico-esistenziale della Monroe, biondo oggetto feticcio che sulle note di I wanna be loved by you declama il proprio status di arrendevole e languida passività: la paura dell’abbandono, il senso di inadeguatezza e la disillusione presagiscono in parte il drammatico epilogo che l’avrebbe consegnata alla storia.
Leggero e pungente, il Wilder’s touch accarezza la trama di A qualcuno piace caldo per farsi gioco dei dilemmi e dei paradossi dell’umanità su cui sono fondate le leggi del vivere civile, senza risparmiare i compromessi della collettività e i suoi luoghi comuni, dal tabù del sesso alla malavita, dal legame uomo-donna all’antinomia tra essere e apparire, disegnando un caleidoscopio di maschere e di finzione in cui “tutto è falso e […] di conseguenza il senso del falso deve trionfare”[1] ma soprattutto “nessuno è perfetto”.
[1] La Polla Franco, Sogno e realtà americana nel cinema di Hollywood, Milano, Il Castoro, 2004, p. 164.