Update! Viste le reazioni contrastanti e appassionate che Alien: Covenant sta suscitando, abbiamo allargato l’apporofondimento critico a un confronto a due. Leggiamo dunque la sfida tra Gregorio Zanacchi Nuti e Francesco Cacciatore, che disputano intorno alla bontà del film.

Dopo il ritorno al franchise di Alien con Prometheus, Ridley Scott dirige un altro prequel della saga, mescolando suggestioni dei capitoli precedenti con poca inventiva. Il gruppo di comando della navicella spaziale Covenant, inviata a colonizzare il lontano mondo Origae-6, decide di sbarcare su un pianeta sconosciuto per indagare le origini di una misteriosa trasmissione radio. Una volta a terra, i membri della spedizione si imbattono in una navicella aliena, e vengono attaccati da alieni ostili. Salvati da David, androide superstite della spedizione Prometheus, i superstiti dell’equipaggio Covenant scopriranno la verità sulla missione precedente.                                                                       

In bilico tra sequel e reboot, Covenant appare pensato come grande patchwork dei primi due Alien: se la prima metà della pellicola è modellata sul classico del 1979, con l’astronave attirata da un segnale radio sconosciuto e il ritrovamento di una misteriosa navicella aliena, man mano che la narrazione procede lo script sembra guardare invece ad Aliens, secondo capitolo della saga dal tocco smaccatamente più action. Dopo un inizio governato dalla suspance, gli xenomorfi attaccano, e alla paura del mostro in agguato si sostituisce l’adrenalina dello scontro aperto, perpetrato a colpi di asce, ruspe e armi da fuoco.

La radice duplice della pellicola si riflette anche sui personaggi, in primis la Daniels di Katherine Waterston; vedova impaurita nei primi 60 minuti, nonappena gli xenomorfi escono allo scoperto la donna si scopre guerriera impavida come la Ripley di Aliens, arrivando persino a combattere gli alieni sulle ali di una navicella in corsa. Anche la presenza di due androidi, entrambi impersonati da un azzeccatissimo Fassbender, cita contemporaneamente disprezzabile Ash, deciso a proteggere i mostri, e il fedele Bishop, pronto ad aiutare l’eroina. Spogliato del materiale proveniente dal DNA dei film precedenti, il nucleo della pellicola è esposto in tutta la sua vuotezza: l’unica vera novità introdotta è un cambio di antagonista, che vede sostituirsi alla corporazione Weyland-Yutani, sempre desiderosa di catturare gli xenomorfi e studiarli, l’androide David, deciso a sfruttare gli umani per evolvere ulteriormente le sue creazioni mostruose.

Le risposte alle domande lasciate aperte dallo script di Damon Lindelof in Prometheus trovano una spiegazione maldestra in un breve flashback, in cui i misteriosi Ingenieri vengono rappresentati come civiltà ridicolmente arcaica, provvista di astronavi e bioarmi ma vestita di stracci. Resta un po’ di amarezza nel constatare come le premesse poste dal film precedente siano state tradite su tutta la linea, preferendo risposte spicciole e una pellicola piatta a un’opera forse meno accessibile ma sicuramente più interessante. Al pensiero che Scott ha annunciato almeno un altro film del franchise non possiamo fare a meno di rabbrividire.

 

 

 

L’impianto narrativo del film affonda le radici nella tradizione fantascientifica che Scott, ispirandosi a Terrore nello spazio di Mario Bava, ha contribuito a creare con il primo film della saga: un’immensa astronave in rotta verso nuovi mondi dove esportare la civilizzazione umana, lo sbarco su un pianeta apparentemente ospitale, il contatto con una forma aliena ostile e il conseguente massacro di tutti i membri dell’equipaggio. Questa rivisitazione dei tratti distintivi di Alien tanto cari ai fan divide lo spazio con il nuovo filone della saga, dedicato agli Ingegneri e all’origine degli xenomorfi, anche qui l’elemento più problematico del film ma proposto in maniera meno fallimentare del previsto.

Se Prometheus voleva essere una riflessione filosofica (poco riuscita) sull’origine dell’uomo e sulla fallibilità del divino virata in chiave orrorifica, Alien: Covenant non si perde in raffinate elucubrazioni metafisiche e si presenta da subito come un robusto action movie fantascientifico dal ritmo frenetico. La sceneggiatura di John Logan, subentrato a Damon Lindelof, liquida in scioltezza le perplessità e i punti di morti del capitolo precedente per lasciare ampio spazio al mortale gioco del gatto e del topo tra il capitano Daniels e i brutali xenomorfi, protagonisti delle sequenze d’azione più concitate e di un finale che attinge a piene mani dall’Aliens di James Cameron.

L’impianto visivo è senza dubbio il fiore all’occhiello del film, grazie alla perfetta sinergia tra CGI e monumentali set realizzati con dovizia di dettagli, ma a coadiuvare il tutto vi è l’abilità innata di Ridley Scott di instillare la tensione con inesorabile lentezza e gettare i suoi personaggi nel panico con compiaciuto sadismo; se la componente estetica aderisce totalmente ai canoni della saga, sul piano tematico il film trova inattese affinità con Blade Runner, racchiuse tutte nel corpo e nella psiche di David, nuovo centro gravitazionale del franchise.

Come un novello Roy Batty, l’androide interpretato da Michael Fassbender prende coscienza dell’inferiorità dei suoi creatori in una magistrale sequenza d’apertura dal sapore kubrickiano e li punisce per la loro obsolescenza organica dando vita agli xenomorfi, assurti da manifestazione fisica del terrore dell’ignoto a futuristica piaga divina. Seppur con alcune eccessive ingenuità, mostrate soprattutto nello scontro con il suo alter ego pacificato Walter, Ridley Scott elegge David come nuovo simbolo dei suoi orrori creazionisti e porta avanti con minor presunzione le riflessioni sofisticate introdotte da Prometheus.

Alien: Covenant ridimensiona quindi le nuove ambizioni della saga in favore di un intrattenimento old school  e offre al pubblico uno spettacolo avvincente che strizza l’occhio alla sua gloria passata ma  si adegua con convinzione ai nuovi paradigmi del cinema di genere.