Dopo l’esordio alla regia con The Birth of a Nation - Il risveglio di un popolo sulla sanguinosa rivolta di schiavi guidata dal predicatore afroamericano Nat Turner nel 1831, Nate Parker torna a dirigere e interpretare il non meno polemico American Skin, anomalo film giudiziario che ha ricevuto l’endorsement di Spike Lee, ormai indiscutibile padre putativo del nuovo cinema afroamericano. Guardando alle opere d’impegno civile di Sidney Lumet, Parker mette in scena un processo ufficioso contro un poliziotto bianco già scagionato dall’omicidio del figlio del protagonista che, amareggiato dal verdetto, assalta il municipio prendendo in ostaggio civili e agenti e formando con alcuni carcerati una giuria popolare che dovrà esprimersi in merito.

“Nel suo romanzo Uomo invisibile del 1952, Ralph Ellison suggerisce che quando qualcuno non viene ascoltato per troppo tempo, farà qualsiasi cosa per richiamare l’attenzione”. Le parole del regista fungono da chiave esplicativa del film stesso che non è certo da interpretare come un inno alla violenza o alla giustizia fai da te a cui molto cinema statunitense ha abituato il pubblico. Piuttosto l’intento di Parker è portare lo spettatore a riflettere su una delle principali piaghe sociali in America: la sistematica violenza e impunità della polizia nei confronti delle minoranze etniche, in particolare neri e latini.

L’autore lo fa in modo accattivante attraverso il confronto tra difesa e accusa del poliziotto incriminato, nella lunga sequenza del “processo” che costituisce il climax della pellicola. Le parti in causa si confrontano su un piano comune pur se da prospettive diametralmente opposte, ben consci che il pericolo il più delle volte non nasce dalle azioni compiute ma da chi le compie. “Non è un segreto/ Puoi essere ucciso solo perché vivi nella tua pelle americana” cantava Bruce Springteen nel 2000 in memoria di Amadou Diallo, parole che suonano quanto più vere soprattutto dopo l’omicidio di George Floyd.

È evidente che il filmato dell’uomo di Minneapolis soffocato da un agente contribuisca non poco a empatizzare con il protagonista e il suo gesto provocatorio che porta alla luce quella che la sociologa Robin Diangelo definisce fragilità bianca, un'incapacità etnica di riconoscere l'impostazione culturale basata su razzismo e supremazia ricevuta sin da bambini da parte della società e le sue istituzioni. Gli atteggiamenti difensivi dei poliziotti che cercano di giustificare il collega sottolineano proprio il limite tutto caucasico a guardare in profondità sé stessi e individuare gli ostacoli strutturali della propria identità comunitaria e partire da essi per imparare a guardare la realtà con nuovi occhi. Occhi che devono imparare a vedere oltre le immagini, come suggerisce il cinico finale coi notiziari riportanti ognuno la propria falsa verità, scoop tra tanti che perde presto di valore superato da quello successivo.

Ovviamente i media hanno un ruolo fondamentale nella sensibilizzazione del pubblico, ma hanno tempi troppo stretti per dare il giusto peso agli eventi. “Un film invece ha il potere di tenerti inchiodato a una vicenda per un’ora e mezza, presentarti vari punti di vista e lasciarti pieno di interrogativi”, sostiene Parker sottolineando la centralità del mezzo cinematografico oggi a sostegno alla causa nera.