Osservando il pianeta Terra dallo spazio, si potrà notare solamente una piccola macchia di colore marrone. Si tratta del deserto di Atacama in Cile. Questo vasto territorio è il solo posto al mondo ad essere privo di umidità, dove non ci sono animali né insetti, nessuna forma di vita. Proprio da questo angusto luogo prende le mosse Nostalgia de la Luz, penultima opera del cineasta cileno Patricio Guzmán, il quale dirama il suo film in tre direzioni, legate tra loro non solo dalla location.
In questo deserto vengono installati i telescopi più potenti del mondo: Guzmán è interessato agli scienziati che osservano ed esplorano il cielo, secondo i quali non esiste il presente se non nella mente umana, poiché tutto ciò che vediamo è la proiezione di qualcosa avvenuto nel passato, come la luce lunare che giunge ai nostri occhi un secondo dopo esser sprigionata, o quella del sole che impiega otto minuti per irradiarsi nell’atmosfera terrestre. Accanto agli astronomi, convivono gli archeologhi, indaffarati nella ricerca di resti delle popolazioni precolombiane. Due differenti modalità di ricercare il passato che introducono il reale interesse del film, la storia più recente, quello della dittatura di Pinochet e del campo di prigionia di Chacabuco, ricavato dalle rovine di una miniera e tra il ’73 e il ’74, costruito nei pressi degli osservatori astronomici, nel quale i dissidenti venivano imprigionati, torturati e uccisi, i loro corpi gettati in fosse comuni, negati per sempre alle famiglie di appartenenza. Numerose sono state le donne che hanno vagato nel deserto alla ricerca dei corpi dei propri cari scomparsi, riuscendo solamente a recuperarne alcune parti, frammenti ossei per lo più. Nel 2002 questo fenomeno sembra rallentare, esaurirsi, ma alcune donne più sfortunate continuano la loro ricerca, instancabili, nonostante la non più giovane età, trainate dalla disperazione e dalla necessità di riavere indietro i resti dei propri uomini che diventa sola e unica ragione di vita. Tale ostinazione non è ben vista dal governo cileno attuale e queste persone vengono considerate alla stregua di lebbrosi, emarginati dalla società, poiché tengono vivo un ricordo che in molti credono sarebbe meglio spegnere.
Guzmán si dimostra per l’ennesima volta autore miltante, interessato alla Storia del proprio Paese, ribadendo con la solita voce flebile e pacata, compensata da un grande vigore espressivo, l’importanza della memoria, solo e unico antidoto contro il ripetersi di simili soprusi. Tale memoria è personificata dalla figura di un architetto, ex-prigioniero, che, dopo la liberazione, riuscì a disegnare nei minimi dettagli le fattezze dei luoghi di detenzione e tortura in cui rimase per anni.
Accanto alla dimensione storica c’è una grande attenzione per la Natura, l’amore per un territorio che è palcoscenico della Storia, nel bene e nel male, e che quindi non può e non deve in nessun modo essere lasciato da parte. Astrologia e Archeologia sono messe al servizio del racconto storico, Guzmán sembra usarle per spezzarne la durezza, conferire un tocco di poeticità al film rendendole però connessioni perfettamente funzionali al messaggio di centralità della memoria, concetto chiave dell’intera opera dell’autore cileno.
Il film comincia con il ricordo di un Paese sereno, in cui il presidente della Repubblica poteva camminare tranquillamente per la strada senza scorta: anche questa è una memoria che va mantenuta lucida e chiara, che deve dar la forza di lottare per tornare a tale condizione di equilibrio e pacificità.
Stefano Careddu