Una pallina rimbalza dalle scale. Pochi secondi e un cane scende le scale, afferra la pallina. Ma chi ha scagliato la pallina? Di quella casa non vediamo solo le scale, vediamo le travi in legno, il soffitto, il davanzale. Possiamo leggere i segni impressi sul legno, ma possiamo conoscere la vita di una casa? Presto la casa si popola di agenti della scientifica. Perlustrano la casa da cima a fondo alla ricerca di segni. Schizzi di sangue sopra il tetto forse sciolti nella neve.

Non basta, serve affidarsi ai segni umani. Il figlio era testimone, forse era in casa, forse no. Aveva sentito i genitori discutere. Litigavano? Lui non li ha mai visti litigare, ma d'altronde lui è ipovedente... Bisogna lavorare di finzione, re-inscenare il tutto con tanto di copione. E un manichino che cade dal balcone. Le cose ancora non tornano, occorre cambiare set, attori. Già James Stewart ci aveva dimostrato come il tribunale fosse un perfetto set dove forzare spettacolarmente i segni in Anatomia di un omicidio (1959) di Preminger.

“I dettagli tecnici, le traiettorie... Quello che importa è la verità umana!” diceva l'avvocato difensore di Brigitte Bardot nel La verità (1960) di Clouzot. Un film a cui Anatomia di una caduta certamente guarda nel riproporre la verità umana di una donna accusata di aver ucciso l'amore della sua vita. Sandra Hüller interpreta una scrittrice tedesca di romanzi d'autofiction. Da qualche anno vive con marito e figlio in uno chalet sperduto sulle Alpi francesi. Parla a malapena francese, più fluentemente inglese, ma la sua lingua materna, come il suo desiderio, sembra smarrito.

Nel set aperto alla sfera pubblica del tribunale Bardot e Hüller in quanto donne moderne che rivendicano la propria indipendenza e libertà sessuale sono colpevoli della caduta non tanto di un uomo ma del maschio. La moglie scrittrice è la vera lavoratrice, mentre il marito si lamenta di non trovare il tempo anche lui di scrivere tanto è impegnato a fare lavori di casa e aiutare il figlio. E chissà quante volte lei ha tradito il marito. L'ha già fatto una volta.

La grande differenza tra il film della Triet e quello di Clouzot sta nella diffidenza verso l'oggettività del flashback di Anatomia di una caduta. Come nel film di Preminger, è piuttosto l'incedere retorico degli avvocati verso l'accusata a essere al centro della scena, nonché il corpo della Hüller stretto nella morsa delle accuse. Il film lavora sapientemente di pieni e vuoti, riempiendo la prima parte di parole, interpretazioni, ipotesi che convergono tutte verso il corpo accusato.

Solo dopo un'ora e mezzo appare un flashback, o, meglio, l'immaginazione soggettiva di ciò che potrebbe essere accaduto durante un episodio casualmente registrato in audio dal marito e ora riproposto in aula. Una scena di litigio violento tra moglie e marito (per la prima volta reso visibile), in cui si rinfacciano colpe, responsabilità, inadeguatezze. Un colpo sordo, stacco di montaggio. Cos'era quel rumore? Lo spettatore tanto del tribunale quanto del film è condannato a non poter rispondere a questa domanda.

Primo piano del figlio. Solo ora ci si accorge che l'identificazione spettatoriale si è spostata sul figlio ipovedente. O forse è sempre stato così per tutto il film ed eravamo ciechi, come era stato cieco il bambino di fronte alla sua situazione famigliare fino a quel momento. Forse era così presente la madre e il suo corpo aggredito proprio perché il figlio voleva credere alla sua innocenza? Forse era così assente il padre perché non voleva affrontare il suo possibile suicidio? Tornato a casa il figlio sotto la doccia piange l'innocenza perduta, un'immagine che sembra strappata dal cinema di Pialat.

Ma è qui che il lavoro (del lutto, della memoria, della finzione, della creazione) finalmente inizia. Novello regista, il figlio ricrea una situazione successa tempo prima al suo cane per capire se suo padre prendeva farmaci. Come la madre, sa che per poter cogliere una verità bisogna ripartire dal proprio vissuto. Ma è una verità o una spiegazione parziale a una domanda insistente? Una verità umana, un'autofiction, cosa chiedere di più?