Con molta umiltà e determinazione Dario Albertini sta diventando un protagonista del cinema italiano, che non va considerato meno importante di altri più titolati come Jonas Carpignano o Alice Rohrwacher, cui sembrerebbe avvicinarsi per alcune caratteristiche. In questa suo secondo lungometraggio di finzione – fresco vincitore del premio del pubblico al Festival di Montpellier – Albertini racconta la storia di Gioia, una giovane diciottenne che si occupa dell’azienda casearia di famiglia ma che soprattutto deve badare al padre, intossicato dalla ludopatia e incapace di liberarsi dal vizio del gioco.

L’idea di Anima bella nasce da un documentario dello stesso Dario Albertini, Slot – Le intermittenti luci di Franco del 2013 e si può ben dire che in questo caso la pratica di utilizzare il non fiction anche come lavoro preparatorio è vincente, per la credibilità dei luoghi (specie nella seconda parte, urbana, lancinante, tra locali di slot machine e motel fatiscenti) e per lo sfondo umano che viene raccontato – per esempio la comunità di recupero dei ludopatici.

Le dichiarazioni di Albertini nelle interviste sono interessanti: “Ho conosciuto la realtà della Repubblica dei Ragazzi sempre lì vicino a Civitavecchia, dove ho iniziato a girare l’altro documentario che ha portato a Manuel: mi sono perso quello slot. Poi ho incontrato di nuovo Claudio Dalpiaz, uno psicologo pioniere in Italia per chi soffre di ludopatia. Ogni mese mi mandava dei report e mi ha detto: ‘Lo sai che da quando hai girato quel doc la situazione è pesantemente peggiorata?’. E mi ha tirato fuori dei numeri pazzeschi, perché al gioco della slot machine al bar si è aggiunto l’online. Il progetto è ripartito da lì, poi piano piano ci siamo un po’ allontananti dall’idea del giocatore d’azzardo. Qui volevo raccontare gli effetti della dipendenza sulla figlia” (intervista rilasciata a Rolling Stone).

Se Manuel pedinava il suo protagonista con incessante intensità, Anima bella – pur rimanendo sempre attaccato alla protagonista Madalina – sembra aprire di più lo spazio alla società pubblica, e non solo al mondo privato. Le riprese fluide, che accompagnano Mada in giro per la campagna in motorino o dentro gli squarci di squallore urbano nella seconda parte del film, servono a fare di lei una testimone di un orizzonte poco conosciuto e anche poco raccontato dal cinema italiano. C’è qualcosa di idealistico e fragile nel cinema di Albertini, che probabilmente – vista la padronanza tecnica e narrativa – sarebbe buon protagonista di progetti mainstream, che tuttavia al momento ha scelto di non intraprendere.

La produzione di Bibi Film, la partecipazione di Rai Cinema, il marchio francese autorevole di Le Pacte, danno quanto meno l’idea che la carriera del regista sia più visibile, come merita.