“Spazio spazio, io voglio, tanto spazio per dolcissima muovermi ferita: voglio spazio per cantare crescere errare e saltare il fosso della divina sapienza. Spazio datemi spazio ch’io lanci un urlo inumano, quell’urlo di silenzio che negli anni ho toccato con mano” (Alda Merini Vuoto d’amore). Approfittiamo delle proiezioni dedicate al film La pazza della porta accanto di Antonietta De Lillo, per un approfondimento sul film. Segue.

Alda Merini, ammalata e affamata di vita, è stata una delle personalità più magnetiche del nostro Novecento. Di lei hanno scritto in molti: donna e poetessa carismatica, ha consumato amori celebri e vissuto l’esperienza tragica del manicomio. Dopo Ogni sedia ha il suo nome, presentato a Locarno nel 1995, dove si alternano le confessioni della Merini a pezzi della sua opera recitati da Licia Maglietta, Antonietta De Lillo ha deciso di riprendere in mano il materiale girato nei due giorni passati a stretto contatto con la poetessa nel 1995.

A distanza di vent’anni e con maggiore consapevolezza, la De Lillo ritorna su questo materiale con il distacco necessario, quasi stesse riutilizzando delle riprese altrui, non ancora sfruttate al meglio. Nasce così La pazza della porta accanto (titolo omonimo di una raccolta di scritti della Merini): la camera si mette al servizio del suo soggetto e registra un flusso di coscienza sincero, sfrontato, a tratti dolce. Siamo così spettatori del racconto di una vita che si è mossa tra passioni, turbamento, follia e un’insaziabile brama di vivere.

“Signorina, lei mi vuole conoscere?” chiede Alda Merini all’inizio del film, e la regista risponde: “Si, la vorrei conoscere”. “Ma i poeti sono inconoscibili”. In questi 53 minuti, invece, si ha la sensazione che la poetessa finalmente si lasci filmare e si riveli, grazie a poche inquadrature fisse. Il film procede seguendo una costruzione lineare e senza intoppi, con qualche breve stacco su immagini di Milano e dei suoi navigli.

Ascoltiamo Alda Merini mentre racconta degli amori sofferti e dell’esperienza in manicomio (che ha dato vita alla splendida raccolta di poesie La terra santa) e ci è difficile restare indifferenti alle parole di questa donna rugosa dagli occhi chiari, forse rea soltanto di essersi troppo avvicinata alla comprensione di quella condizione umana che oscilla instancabilmente tra gioie intense e buie disperazioni. Ma il racconto della Merini non è solo un racconto di sofferenza, amori distruttivi e manicomio, è anche e soprattutto un’inno d’amore alla passione più grande e faticosa, il grande impegno che l’ha accompagnata per tutta la vita: la poesia.

Il pregio del film sta nella decisione di lasciare grezzo un materiale che difficilmente poteva essere rimodellato. L’opera ci restituisce così un ritratto limpido di una donna complessa, di una folle che voleva essere lasciata in pace e vivere diversamente, tra le sue parole, in un angolo di tranquillità lontano dal mondo.

Caterina Sokota