Dawson City: Il tempo tra i ghiacci, documentario del pittore e art filmmaker Bill Morrison, narra la storia di una cittadina canadese, situata tra i fiumi Klondike e Yukon, presa d’assalto durante gli anni della Gold Rush.
Nel 1895 Dawson City non esisteva, tre anni dopo si contavano 30.000 abitanti perlopiù arrivati in quell’area in cerca di fortuna, tra i tanti il giovane Jack London e il suo cane Buck de Il richiamo della foresta, realtà e finzione sono l’essenza di quei luoghi mitici, breve è la distanza che separa La febbre dell’oro di Charlie Chaplin dal bordello aperto da Fred Trump, un parente del Nostro che non poteva di certo mancare in una vicenda in cui hanno origine le regole abiette e spregiudicate del capitalismo americano.
Se fosse stato un romanzo d’avventura difficilmente avremmo avuto un epilogo così anomalo: il ritrovamento fortuito nel 1978 di una miniera di bobine sepolte per anni tra i ghiacci di una piscina trasformata in campo da hockey, materiale che si pensava fosse andato perduto e che ha colmato parte della lacunosa storia del cinema muto.
Morrison ha voluto raccontare la nascita e lo sviluppo di Dawson City utilizzando sia del materiale fotografico, come gli scatti di Eric A. Hegg, che le pellicole cinematografiche rinvenutevi, in parte filmati amatoriali e newsreels sotterrate negli anni ’30 quando l’avvento del sonoro le aveva rese ingombranti e obsolete ponendo il problema del loro smaltimento, veri e propri reperti archeologici estratti da una “cava” dimenticata e riportati alla luce dopo un necessario restauro.
Come già si era visto in Decasia (2002), il regista mette in risalto il decadimento fisico delle pellicole provocato dai numerosi danni inflitti dall’acqua della piscina, questi frammenti di una trama distante sono isolati e rimontati davanti a un pubblico sopraffatto dalla potenza delle immagini caricate della forza del perturbante freudiano, con il quale Morrison sembra avere una certa dimestichezza. Figure incomplete muovono il proprio corpo in disfacimento nel perimetro alterato dei fotogrammi, Unheimliche intraducibile rafforzato dalla comparsa della scritta Buried Alive (frammento di The Seven Pearls, 1917) che segue l’inquadratura della piscina, vera e propria tomba nella quale centinaia di bobine erano nascoste, sepolte in stato di morte apparente, citazione di uno dei motivi del perturbante.
Un inconscio cinematografico recondito in cui le notizie di attualità dei cinegiornali documentano le manifestazioni per i diritti degli afroamericani, le partite di baseball truccate, i filmati della prima guerra mondiale ecc. facendo da controcampo ai volti femminili di Brutality (1912), di A Sagebrush Hamlet (1919) e di Barriers of Society (1916), solo per citarne alcuni e restituendo in entrambi i casi un’aura da notte dei tempi.
Si racconta che i ragazzini in estate si divertissero a dare fuoco ai pezzi di pellicola che affioravano dal campo da hockey; la delicatezza della pellicola altamente infiammabile è messa in relazione alla fragilità di un’epoca, in particolare Dawson City viene ricostruita per nove anni consecutivi dopo che ciclicamente un incendio la rade al suolo, nel documentario viene ricordata l’origine della miscela che ha dato vita alla celluloide e potremmo aggiungere che entrambe siano nate da un’esplosione.
Non è la prima volta che Morrison sonorizza dei materiali d’archivio, le musiche composte da Alex Somers e da suo fratello John (sound designer) hanno un ruolo fondamentale nell’accentuazione del lirismo di queste immagini simili ad apparizioni fantasmatiche e incorniciate dai bordi incerti della pellicola che lo schermo fatica a contenere.
La comparsa improvvisa dei fratelli Lumière, anch’essi spettri evocati durante una seduta spiritica, aumenta il valore poetico del documentario, non solo un omaggio ai numi tutelari della settima arte ma spunto per una riflessione sul ruolo odierno di queste testimonianze trasferite su supporto digitale. E finalmente, dai tempi d’oro delle proiezioni a Dawson City, queste tracce su celluloide incontreranno il favore del pubblico, spesso restio di fronte ai primordi del cinema ma sicuramente interessato alla vita di questa cittadina del Klondike.
Cecilia Cristiani