Archivio
L’avventurosa storia di come Bolognini produsse Pasolini rifiutato da Fellini
Dalla formidabile cornucopia di L’avventurosa storia del cinema italiano, emerge al ricostruzione a tre voci (Fellini, Pasolini, Bolognini) della vicenda produttiva di Accattone – e di come abbiamo rischiato di non veder realizzato il capolavoro del 1961. “Conoscevo il copione di Accattone ma non avevo mai visto, diciamo, il suo copione di regia. Era una cosa incredibile, commovente. Inquadratura per inquadratura, aveva creato un copione illustrato, un lavoro stupendo che era già il film, chiaro, così come sarebbe stato. Rimasi entusiasta, sbigottito che quella roba non fosse piaciuta. Dissi subito che avrei fatto il possibile per dargli una mano” (Mauro Bolognini).
Il noir e i peccati borghesi. “Il corvo” di Henri-Georges Clouzot
Il cinema di Henri-Georges Clouzot è all’insegna del noir, declinato in varie forme, ma sempre focalizzato sulla psicologia dei personaggi: Il corvo, incentrato su una descrizione al vetriolo della borghesia dove covano misfatti e segreti inconfessabili, è un grande classico del cinema francese, un film dotato di una narrazione e di un linguaggio assolutamente moderni e in grado di parlare agli spettatori di ogni epoca – in fondo, la piccola borghesia cattiva e viziosa non è poi lontana da quella messa in scena anni dopo da un altro maestro come Claude Chabrol.
Quando la slapstick comedy si fa meta-cinema. “La palla n. 13” di Buster Keaton
La palla n. 13 è uno dei film della maturità di Buster Keaton, che trova un equilibrio apollineo fra i canoni della slapstick comedy e una riflessione meta-cinematografica per niente banale. In questo mediometraggio il geniale comico mette in scena alcuni temi ricorrenti della sua poetica, come l’amore impossibile e una continua lotta contro l’ostilità delle circostanze, temi che si esplicano in una serie continua di gag irresistibili accompagnate da una musica vivace e onnipresente. C’è quindi una ragazza (che come tutti i personaggi è senza nome) di cui è innamorato e che cerca di conquistare, frenato dalla timidezza e dalla povertà. E c’è il cattivo di turno, a sua volta innamorato, che cerca di mettere il protagonista in cattiva luce.
Amore e malavita nella Parigi ottocentesca. “Casco d’oro” di Jacques Becker
Casco d’oro è sia un film che è affresco di un’epoca, sia un film dove ci sono i personaggi basilari del noir francese (e non solo): la prostituta, a cui dà vita una bellissima e intensa Simone Signoret in uno dei più grandi ruoli della sua carriera (prima ancora de I diabolici di Clouzot), l’ex galeotto che vuole ricominciare una vita onesta ma è travolto dagli eventi (col volto inconfondibile dell’italo-francese Reggiani), il boss (un grande Dauphin), il protettore, il poliziotto corrotto e tutta una parata di sgherri coi volti giusti. Come accadrà in Grisbì (e parzialmente anche ne Il buco), il cinema noir di Becker è improntato al cherchez la femme, poiché è sempre l’amore per una donna a muovere i personaggi e a guidarli nel drammatico destino, mentre la colonna sonora di Georges Van Parys suona e palpita insieme a loro.
“La taverna della Giamaica” e il congedo gotico di Hitchcock dall’Inghilterra
La taverna della Giamaica è forse l’unico film in costume di Hitchcock insieme a Il peccato di Lady Considine. Le ambientazioni e i costumi sono curatissimi e insoliti, poiché una taverna popolata da un insieme pittoresco di volti patibolari non è quello che ci aspetteremmo dal maestro del brivido; e inconsuete sono l’elegante villa del giudice e le coste dove agiscono i pirati; così come la brughiera, immersa nella nebbia e attraversata da un calesse, sarebbe più tipica di un film gotico. Ma Jamaica Inn, in fondo, è proprio un film gotico o meglio un incrocio, sapientemente dosato, fra il noir, il gotico e il dramma in costume.
“Il caso Mattei” di Francesco Rosi tra i gangli del potere
Con Il caso Mattei lo stile di Rosi raggiunge l’apice del verismo, trasformandosi in una sorta di cinéma vérité, magistralmente unito a una narrazione lucida, serrata, accurata e ricca di pathos. La sceneggiatura affianca infatti a tutta la parte con Volonté (che è comunque quella maggioritaria) le indagini successive alla sua morte, e ritaglia anche uno spazio per lo stesso Rosi, che entra in scena come attore nel ruolo di se stesso: nel ruolo cioè di un regista che sta facendo ricerche sulla vita e la morte di Mattei, creando una sorta di piacevole cortocircuito fra cinema e documentario, in una molteplicità di linguaggi cinematografici; c’è ad esempio anche un discorso di Ferruccio Parri, e gli attori professionisti si affiancano a personaggi nei panni di loro stessi.
“Cronaca di un amore” e il superamento della sintassi tradizionale
Di Cronaca di un amore Antonioni è anche autore del soggetto, mutuato dalla tradizione hard-boiled americana, James M. Cain in particolare, e dal caso giudiziario della Contessa Maria Pia Bellentani che uccise nel 1948 l’amante Carlo Sacchi. È, inoltre, co-autore della sceneggiatura, riscrive i movimenti della macchina da presa per innovare il linguaggio cinematografico, dirige gli attori, specialmente Lucia Bosè, con pugno di ferro, impiegando, nella sua stessa definizione “mezzi . . . meccanici e odiosi”; partecipa attentamente e scrupolosamente al montaggio. Secondo la testimonianza dell’aiuto regista Francesco Maselli, inoltre, Antonioni voleva pianificare anche la promozione del film, amareggiato dal rifiuto della Mostra di Venezia.
Il comico dissonante. “Pane e cioccolata” tra farsa e sconfitta
Chi siamo? Questo interrogativo rappresenta la premessa che genera gli eventi di Pane e cioccolata, film del 1974 realizzato dal poco prolifico Franco Brusati che si colloca magnificamente nel filone della commedia all’italiana per la tragica ironia con cui maneggia il tema spigoloso dell’identità nazionale. Il corpo in cui si concretizza questa acuta indagine è quello di Nino Manfredi, uno tra i maggiori esponenti dell’italianità e qui chiamato invece a ricoprire il ruolo di un emigrato ciociaro in Svizzera mosso da un sentimento tutt’altro che patriottico. Una scrittura (a firma dello stesso Brusati, affiancato dalla drammaturga Iaia Fiastri e da Manfredi) attenta a coniugare il surrealismo delle gag ad una pertinente ricostruzione dei costumi e del contesto sociale.
Il comico tragico. Appunti su “Il grande dittatore”
Durante il fascismo il film venne proibito dal MinCulPop che ordinò di “ignorare la pellicola propagandistica dell’ebreo Chaplin”. Infatti Il grande dittatore debuttò, nella sua versione integrale, sugli schermi italiani quattro anni dopo, a Roma nell’ottobre del 1944, e rimase in programmazione per un lungo periodo in diverse città d’Italia. “Giunse nell’immediato dopoguerra; ma su un pubblico che aveva assistito alle successive tappe di quella follia, che aveva sofferto sulle proprie carni e sul proprio spirito i disastri della guerra e della sconfitta, che aveva saputo dei forni crematori, il film apparve inadeguato, un riflesso troppo pallido della realtà”, così scrive Ugo Casiraghi nell’ottobre del 1960 su l’Unità.
“Amore e fortuna”, i piccoli drammi individuali di Becker
Amore e fortuna è un esempio di leggerezza espositiva e tragiche dissonanze nel carattere di personaggi straordinariamente ordinari: dialoghi verbosi e frizzanti, toni sopra le righe ma mitigati da una velata malinconia di fondo sono elementi del film di Becker sopravvissuti all’erosione del tempo e ancora centrali ad oltre settant’anni di distanza. Nel caso in questione tutto ruota attorno alle goffe peripezie di una giovane coppia nella Parigi del secondo dopoguerra, parzialmente soddisfatta della propria vita. Lo scossone in questa monotona ma non disprezzabile routine arriva sotto forma di biglietto vincente della lotteria.
“Les Enfants du Paradis” opera cinematografica totalizzante
Un kolossal da oltre centonovanta minuti che, diviso in due parti, abbraccia un periodo di diversi anni e si muove con disinvoltura tra una varietà di generi che spaziano dal melodramma alla commedia, arrivando finanche a contaminarsi con delle sporadiche incursioni nel thriller. Una natura multiforme che riflette le sfaccettature dei protagonisti, figure archetipiche cariche di valori contrastanti e in perenno conflitto. L’eroe romantico che si lancia al disperato inseguimento dell’amata è costretto a soccombere al muro di folla festante, un carnevale di volti deformati, ira, disperazione e giubilo; stati d’animo parossistici che soffocano il fioco grido di un amore interrotto. Come a sottolineare che le passioni più intense sono anche quelle meno rumorose.
Paradžanov Pop
il protagonista del film di Paradzanov poteva essere il simbolo di quella fraternità tra i popoli e di coesistenza culturale tra le diverse repubbliche sovietiche care alla retorica autorizzata dal Politburo. In mano a Paradzanov, tuttavia, il progetto diventa una celebrazione surrealista della libertà artistica, in cui diversi registri espressivi come il cinematografico, il fotografico, il pittorico, si confondono per narrare immagini senza parole. Un collage di miniature, immagini bidimensionali, oggetti di riti liturgici e del folklore locale che ha ispirato i pastiche pop di Madonna e Lady Gaga, rispettivamente per i video di Bedtime Stories (1994) e 911 (2020).
“Pandora” e lo splendore cromatico del melodramma
Negli anni Cinquanta l’industria hollywoodiana esonda dalla propria zona di comfort e si espande con decisione verso i territori del fantastico. Pandora figura tra i titoli che, agli albori del decennio, impostano la rotta verso generi segnati da mondi immaginari e figure ammantate di mistero, affermandosi però come un esperimento ancora parte di un sistema in trasformazione, più che un manifesto del nuovo corso della cinematografia d’oltreoceano. Diretto e prodotto da Albert Lewin, il film è una rivisitazione in chiave contemporanea della leggenda nordeuropea dell’Olandese Volante, diluita in un melodramma canonica in cui la protagonista interpretata da Ava Gardner viene travolta da una burrasca di impulsi amorosi.
“Anni difficili” e le origini del trasformismo italiano
Il fulcro dell’opera sembra essere dunque l’impotenza della gente comune di fronte agli oscuri ribaltoni del potere; quella delle persone semplici è presentata come una massa informe incapace di ribellarsi al proprio destino se non quando ormai è troppo tardi. Impossibile non interpretare questo messaggio come una forte critica al qualunquismo, al trasformismo tutto nostrano, quel senso di movimento del “gregge”, a cervelli spenti, che tanto sarà sbeffeggiato nella successiva commedia all’italiana. “Non mi riesce di trovare uno che abbia il coraggio di dire ‘Io sono stato fascista’: ma da chi era fatto questo fascismo?”, domanda al podestà il sarcastico ufficiale inglese in una scena del finale, incredulo davanti alla meschinità degli sconfitti.
La prospettiva ascetica di Dreyer
Composto da primi piani corti e taglienti, “labbra urlanti o sogghigni sdentati come tagliati nella massa del volto”, La passione di Giovanna d’Arco, scriveva Deleuze (la cui lezione sul film è intramontabile e sempre attuale) “è un film quasi esclusivamente affettivo”, costruito su un tipo di montaggio ed inquadrature cosiddetti “di affezione”, inquadrature che sono quasi unicamente dei primi o primissimi piani. L’affetto è qui inteso come entità spirituale complessa: Giovanna, la pulzella d’Orléans, analfabeta e ribelle è colta nella sua Passione più che nel processo, nella sua essenza di martire e vittima di una Chiesa che, più che accogliere, punisce chi si distacca troppo da certi canoni estetici e sociali.
“Caro diario” e la critica
L’uscita in restauro 4k di Caro diario di Nanni Moretti ci permette di tornare alla letteratura critica sul film, molto ampia e circostanziata. Del resto, come scrive Olivier Séguret: “L’andamento infinito e sontuoso delle tue carrellate su una Roma ignorata, l’indugiare sul rumore della Vespa, la bruciante intelligenza dei commenti della guida Nanni a proposito di questa città in cui è nato (“Sento un odore di tute indossate al posto dei vestiti, di videocassette”), lo humour sconvolgente dell’incredibile sequenza in cui maledice e tortura il critico cinematografico, la delicatezza infinita dell’omaggio reso a Pasolini: tutto ciò resta scolpito nei nostri cuori”.
John Merrick o la potenza del visibile
Attraverso alcune importanti fonti critiche, indaghiamo ancora una volta – a quarant’anni dalla sua uscita e in occasione del restauro distribuito da Cineteca di Bologna – i valori artistici e morali di The Elephant Man. Analizzando i film più classici di Lynch, ci si accorge che The Elephant Man rappresenta il sistema di lettura dell’opera di questo regista. Il racconto della vita di John Merrick, che non rinuncia né al morboso né al comico né all’orrore, sembra più concentrato sull’effetto sortito dal repellente somatico sugli uomini che interagiscono con il protagonista. che non sulla incolpevole mostruosità dello stesso. Ciò non impedisce, peraltro, a Lynch di costruire alcuni quadri astratti, all’interno dell’affidabilità narrativa della pellicola, nei quali il corpo o la testa deformati di Merrick assumono una valenza quasi artistica.
“The Elephant Man” e la critica
L’uscita in prima visione del restauro di The Elephant Man di David Lynch, in occasione del quarantennale del film, ci permette di proporre un’antologia critica, sia d’epoca sia posteriore. Molto interessanti i percorsi interpretativi di grandi maestri della recensione, a riprova che la ricchezza dei film di Lynch viene dimostrata anche dalla molteplicità di letture che ne scaturiscono negli anni. Davanti a questa nuova edizione, ci sentiremo tutti come Richard Brody: “Non avevo più rivisto il secondo lungometraggio di David Lynch, The Elephant Man, dai tempi della sua prima uscita, nel 1980; vedendolo di nuovo, con l’aggiunta di tre decenni di estatici ricordi, sono rimasto sorpreso”.
“Comizi d’amore” e i corpi della società italiana
Comizi d’amore viene girato nel 1964 e rivederlo oggi crea uno strano effetto. Certo oggi chiunque può armarsi di videocamera e microfono e girare per spiagge, lidi, città, università interrogando giovani e adulti su questioni quali identità, normalità\anormalità e divorzio. Ma negli anni della cosiddetta mutazione antropologica quest’inchiesta aveva un’importanza oltre che politica diremmo quasi esistenziale: fondamentale perché compiuta in un momento storico spartiacque, dopo il quale nulla sarebbe stato come era prima. Pasolini diceva che agli inizi di questa crisi i corpi innocenti venivano visti come l’ultimo baluardo di realtà, concetto che va letto in opposizione a quello di irrealtà, incarnato dalla cultura di massa e dai mass media. Ora invece anche la realtà di questi corpi puri è stata manomessa dal potere consumistico.
“Salò” e il riso dell’abiezione
In occasione dell’uscita in Blu-ray di Salò o le 120 giornate di Sodoma, edito da CG Entertainment e contenente la versione restaurata dalla Cineteca di Bologna, ci soffermiamo sull’“astenia” rivoluzionaria e sulla bulimia linguistica del potere teorizzate dal regista, affrontando in particolare il tema del riso. Nel regno dell’abiezione immaginato da Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’espressione linguistica diventa comportamento svuotato di senso, il motto si trasforma in sciatta propaganda e il linguaggio del potere si manifesta in una geometrica coazione a ripetere. Ecco allora il perché della struttura – l’Antinferno e i tre gironi – del “teorema” delle perversioni fisiche, di quell’abisso epistemologico che segna un solco tra la Storia svanita e le storie soppresse.