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Scrivere la storia: “Il gigante” di George Stevens
Il gigante (1956) di George Stevens è spesso onorato del titolo di capolavoro, di film epico che ha fatto la storia del cinema, circondato anche da un’aura di iconica e sacra nostalgia in quanto ultima interpretazione cinematografica di James Dean. Il film è stato considerato come una celebrazione elegiaca per Dean, per un’utopica società americana prevalentemente agraria che lasciava il posto ad una dominata da logiche di guadagno e ostentazione, e per la stessa era classica di Hollywood, qui rappresentata dal grande sforzo produttivo e dal cast stellare. Ma mettere Giant al centro della storia del cinema per la sua celebrazione dello spettacolo cinematografico ha offuscato la riscrittura della storia americana operata da Stevens e dai suoi sceneggiatori attraverso un meccanismo contraddittorio di revisione e compromesso rispetto alle mitologie nazionali.
“Il gigante” e la pastorale americana di George Stevens
“La grandezza appartiene a un altro periodo” fa dire George Stevens a uno dei personaggi del suo Il gigante. Eppure, per definire questa pellicola, non possiamo usare che questo metro: un grande film, di un grande regista, con grandi attori. Più o meno tutti conosciamo Il gigante, per averlo visto – per lo più in televisione – per averlo studiato o per averne sentito parlare. Ecco, questa specie di familiarità potrebbe talvolta averci distratto dalla sua straordinaria attualità e dal suo vasto respiro di classico.
“Un evaso ha bussato alla porta” e lo spirito del cinema sociale americano
George Stevens raccoglie tutto con la naturalezza e l’apparente semplicità che solo la Hollywood classica sa regalare, in un cinema dove oltre la superficie e oltre la risata risiede una profondità di pensiero spiazzante. Stevens non era un radicale ma era estremamente patriottico nel senso migliore del termine: convinto che lo spirito degli Stati Uniti e che il sogno a stelle e strisce risiedesse in primis nella buona volontà delle persone. Una volontà che non è innata ma che può e deve essere costruita nonostante tutto. In The Talk of the Town c’è tutto questo, e sebbene il triangolo amoroso sembri rubare la scena, come un po’ vuole la regola, è certamente l’aspetto socio-politico ciò che davvero rimane.
“Ho sognato un angelo” e l’identificazione del destino
Penny Serenade è un film sulla famiglia, ma soprattutto è un grande film sul lutto, qui affrontato con una sensibilità difficilmente comparabile. Stevens riflette sul tema della morte e su quello della sua accettazione e medita sul tema dell’amore e del donare affetto. Il destino dei protagonisti è infausto, ma questi trovano in qualche modo la forza per ricominciare. Durante il loro percorso Julie e Roger devono affrontare molte prove, ma non sono da soli. Infatti in loro soccorso si presentato puntualmente due figure bellissime, quella della signora dell’orfanotrofio che vede la purezza della coppia e soprattutto quella dell’amico e “zio” Applejack. Questi aiutano a mantenere il difficile equilibrio tra le diverse tonalità emotive che attraversano il film.
“La donna del giorno” commedia della mancanza
Woman of the Year è una commedia che invecchia meglio di altre, la sua tematica è a suo modo vicina ai dibattiti contemporanei sull’equilibrio all’interno della coppia e sul ruolo dell’uomo e della donna che vengono costantemente parodizzati. Stevens dirige poi i suoi attori seguendoli all’interno delle scene e dona loro un palco dove possono esprimere sinceramente le loro emozioni più recondite. Così basta un primo piano su Tracy per cogliere la sua crescente irritazione per gli atteggiamenti della compagna o per l’estraniazione che prova all’interno della festa, quando tutti gli altri invitati non parlano inglese.
“Follie d’inverno” e la danza sui problemi collettivi
il musical funziona proprio per questo, un sogno ad occhi aperti dove tutto finisce per il meglio con una risata e danzando sui problemi singolari o collettivi, come suggerisce la scenografia di John Harkrider per il locale Silver Sandal la cui pista da ballo riproduce una veduta aerea stilizzata della Grande mela. Proprio il ballo, come sempre in questo genere, diventa strumento essenziale per orientarsi nei vari triangoli amorosi che compongono la trama. “Ciascun numero di danza fa avvicinare e poi allontanare i due innamorati/ ballerini, in una deliziosa commistione di slancio e prudenza” (Ehsan Khoshbakht).
“Un posto al sole” e la promessa dell’immortalità
Dopo 19 mesi di montaggio e sette preview, George Stevens presentò finalmente il suo capolavoro A Place in The Sun nel 1951 e fece incetta di ben sei statuette ai premi Oscar. Ma se è vero che i premi sono figli del loro tempo ed è solo la prova della Storia ciò che realmente conta, si può certamente dire che A Place in The Sun è riuscito dopo esattamente settant’anni a rimanere un film indimenticabile. E probabilmente lo sarà ancora a lungo. L’eternità George Stevens se l’è guadagnata in tanti modi, ma in questa storia di proletari che aspirano alla società alto-borghese, fallendo, e di alto-borghesi che provano a scendere dal piedistallo ma che rimangono alieni e inarrivabili, Stevens è riuscito a infondere in una una tragedia tetra e straziante una delicatezza e un’umanità irripetibile.
“Perdonami se ho peccato” e l’ironia dentro il mélo
George Stevens ci immerge in un mondo emotivo di tensioni irrisolte, dove l’alcol è sia l’antagonista che il protagonista assoluto, un nettare che fa da aggregatore sociale e che scorre a fiumi davanti agli occhi di Miller e Jenny, che devono resistere alla tentazione. Siamo al limite della geografia dell’anima del noir classico, in spazi che se non sono allucinati sono comunque piena espressione estetizzata di un sentimento: tra ascensori “ingabbiati”, scale e l’angusta sala museale in cui osservare sarcofagi egizi, i protagonisti si muovono secondo un raggio d’azione limitato, hanno una smania vitale incredibile ma l’impossibilità di respirare davvero l’aria fresca della libertà.
Il viaggio nel cinema di George Stevens
Furono una vita, un mestiere e una vocazione, quelli di Stevens, dove la parola regia coincise sempre con esistenza. La filmografia di George Stevens è un lascito dal valore inestimabile, testimonianza del tempo e della storia oltre che di un’epoca del Grande cinema e che George Stevens: a Filmmaker’s Journey, ci restituisce con esattamente l’amore profondo di chi guarda al cinema pensando che, nei suoi momenti più alti, sia davvero l’arte più potente di tutte. E George Stevens quell’arte la conosceva benissimo. Uno spirito libero e un regista attento, sempre centrato, la cui capacità incredibile era quella rara di saper calare lo spettatore dentro la scena, non semplicemente farlo assistere.