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“Ludwig” 50 anni fa. Il biopic tra vita, storia e politica
Come Ludwig personaggio rifiuta di essere deposto e vuole decidere per la sua vita, Ludwig il film afferma la sua vitalità artistica. Lo scambio tra vita e film non si conclude qui, e il biopic non è semplicemente su Ludwig ma su Visconti stesso: nella sua identificazione con Ludwig, nobile omosessuale con interessi artistici, ma anche nella sua condivisione di alcuni tratti degli altri personaggi e nell’utilizzo di attori e attrici come Berger, Schneider, Orsini, Mangano, Griem e Asti appartenenti alla sua cerchia.
La trilogia della spada di Kenji Misumi
La sintesi poetica fra azione e personaggio rappresenta uno degli elementi più distintivi dello stile di Misumi, che emerge dalla trilogia in tutta la sua limpida grandiosità. Lavorando dentro i confini del prodotto industriale, il regista giapponese aveva trovato un modo tutto suo di conciliare intrattenimento e spessore drammatico, creando una serie di film che cristallizzano perfettamente il dinamismo e la precisione del suo cinema. Già a questo punto, molto prima di raggiungere il pubblico occidentale, quella di Misumi era l’opera di un maestro.
Elegia del rock’n’roll. “The Last Waltz” e il cinema della performance
Le performance di The Band sono curate al dettaglio, inquadratura per inquadratura, come se fossero i numeri di un musical – lo si vede soprattutto con la splendida The Weight, registrata dopo il concerto dentro uno studio cinematografico, in una dimensione sospesa e a sé stante. La musica, intanto, si incrocia con le interviste, durante le quali i membri del gruppo raccontano della sua fondazione, dei tour, dei sedici anni in cui hanno suonato insieme. Un approccio studiatissimo, quello di Scorsese, che non rompe la magia dell’evento ma vi aggiunge spessore.
Scrivere la storia: “Il gigante” di George Stevens
Il gigante (1956) di George Stevens è spesso onorato del titolo di capolavoro, di film epico che ha fatto la storia del cinema, circondato anche da un’aura di iconica e sacra nostalgia in quanto ultima interpretazione cinematografica di James Dean. Il film è stato considerato come una celebrazione elegiaca per Dean, per un’utopica società americana prevalentemente agraria che lasciava il posto ad una dominata da logiche di guadagno e ostentazione, e per la stessa era classica di Hollywood, qui rappresentata dal grande sforzo produttivo e dal cast stellare. Ma mettere Giant al centro della storia del cinema per la sua celebrazione dello spettacolo cinematografico ha offuscato la riscrittura della storia americana operata da Stevens e dai suoi sceneggiatori attraverso un meccanismo contraddittorio di revisione e compromesso rispetto alle mitologie nazionali.
“L’ultimo spettacolo”, un turbinio di anime tra passato e futuro
Che vento forte soffia ad Anarene. Proviene dal passato, si rinforza nelle vuote vastità del Texas e tira dritto verso un futuro da scrivere con estrema difficoltà. Sta sicuramente soffiando anche in questo momento e continuerà a farlo senza che nessuno possa del tutto sfuggirgli. I personaggi del film di Bogdanovich trovano riparo in piccoli avamposti per arginarne l’impeto, ma si finisce per imparare molto presto che il vento fa il suo giro e ritorna sempre sui suoi passi. Nel turbinio, c’è chi prova a diventare grande e chi combatte l’avanzata incessante del tempo. Con una meticolosa fotografia in bianco e nero, un’influente colonna sonora dalle tinte country e western e una recitazione d’insieme piacevolmente uniforme, L’ultimo spettacolo è allo stesso tempo un’elegia per il passato e un monito per l’avvenire.
“Blues Brothers” film metafisico
Più che al “blues” strettamente inteso infatti, l’omaggio di Landis & Co è all’intero albero genealogico della musica black: accanto alle dodici battute (John Lee Hooker) troviamo jazz (Cab Calloway), rock n’ roll (il nomadismo razziale di Elvis) e soprattutto soul (Brown, Charles, Franklin), genere per eccellenza ricollegato alle matrici religiose del Gospel. Accanto al suo inarrivabile impianto comico-satirico, è proprio la capacità di Blues Brothers di implementare la forza di queste prediche fra sacro e profano a farne un’opera politica trascinante. Un’autentica vocazione, gridata ex pulpito in forma di canzone, all’impegno sociale e al multiculturalismo.
La commedia tedesca degli anni Trenta e il dramma occultato
Il popolo tedesco aveva da poco passato il periodo buio del primo dopoguerra. Il clima generale dopo il 1925 (e il piano Dawes) si era disteso, ma con la crisi del ’29, la contraddizione della Repubblica di Weimar aveva riportato un clima tragico. Venne introdotto il sonoro e molti registi e attori emigrati ritornarono in patria. Intanto l’U.F.A. iniziò a produrre pellicole dai toni e dalle tematiche più leggere. Il nazismo avanzava minaccioso predicando nuove guerre. In questo clima vengono prodotti molti film a tema pacifista e queste commedie musicali.
“Canoa” al Cinema Ritrovato 2022
Canoa è un film che nel corso della sua narrazione assume forme differenti, dal cinegiornale all’horror passando per la via del falso documentario, mescolandole all’evenienza e non segue una linea temporale consecutiva. Un film duro e faticoso: Cazals decide di girare in un villaggio molto simile e vicino a San Miguel di Canoa e di avere sul set in ogni giornata di riprese i superstiti, per restituire una ricostruzione storica il più veritiera possibile.
“Il gigante” e la pastorale americana di George Stevens
“La grandezza appartiene a un altro periodo” fa dire George Stevens a uno dei personaggi del suo Il gigante. Eppure, per definire questa pellicola, non possiamo usare che questo metro: un grande film, di un grande regista, con grandi attori. Più o meno tutti conosciamo Il gigante, per averlo visto – per lo più in televisione – per averlo studiato o per averne sentito parlare. Ecco, questa specie di familiarità potrebbe talvolta averci distratto dalla sua straordinaria attualità e dal suo vasto respiro di classico.
“Picnic a Hanging Rock” tra esistenzialismo e horror
Alle atmosfere sospese e allucinate (in inglese diremmo eerie) della prosa di Lindsay, il giovane regista arriva coi mezzi puramente filmici che gli mette a disposizione la cultura cinematografica del suo tempo: da un lato l’esistenzialismo “opaco” e l’abbandono della narrazione lineare tipici di un certo modernismo europeo alla Antonioni; dall’altro l’aggressione sensoriale – colonna sonora prog/sinfonica, montaggio forsennato, continue dissolvenze – dell’horror in voga a metà anni Settanta, Dario Argento su tutti. Il risultato è arty e inquietante.
“Nosferatu” cento anni dopo
Nosferatu possiede un linguaggio proprio e unico, che include molti espedienti tipici del cinema dell’orrore funzionali alle emozioni dello spettatore. L’utilizzo del jump-scare (nel momento in cui viene mostrato Nosferatu nella bara), il terrore verso ciò che non si può vedere (la peste), edifici diroccati (i magazzini del sale di Lubecca), magia oscura, bestialità, ignoto. Nell’opera, non c’è spazio per alcun aspetto religioso salvifico, completamente assente: il male si può sconfiggere esclusivamente grazie a un prezzo di sangue, un prezzo umano, terreno, magico.
“Il mistero delle cinque dita” al Cinema Ritrovato 2022
Ci troviamo davanti ad un horror con budget da B-movie che diventerà un cult nel tempo. Robert Florey, autore eclettico, gli conferisce un tono quasi espressionista, soprattutto nei momenti più visionari. Il mistero delle cinque dita è stato l’ultimo film di Peter Lorre alla Warner Bros. in un periodo difficile della sua vita e carriera: la dipendenza da morfina lo rendeva un attore con cui non era facile lavorare e le sue idee di sinistra non aiutavano di certo all’inizio della caccia alle streghe. Nonostante comparirà ancora in tanti film, questa in qualche modo può essere considerata una delle sue ultime grandi interpretazioni
L’eroe di tutti. “Montand est à nous” al Cinema Ritrovato 2022
Il documentario di Jeuland riscostruisce il clima di contrapposizione della Guerra Fredda senza timore di essere smentito dalla sensibilità contemporanea: la scelta, sofferta, di Montand di partecipare ad una tournée in Unione Sovietica anche dopo i tragici fatti di Ungheria, viene mostrata come conseguenza necessaria di anni in cui la lotta ideologica imponeva una scelta di campo. L’utilizzo del cinegiornale sovietico del tempo ricostruisce anche gli attacchi che Montand e le personalità della sinistra subivano per le loro simpatie politiche. Al termine della tournée, Montand dirà di aver smesso di crederci, iniziando una revisione politica che gli farà prendere progressivamente le distanze dal Partito Comunista Francese.
“Cantando sotto la pioggia” e il miracolo collettivo
La nostalgia di Donen e Kelly per l’epoca d’oro di Hollywood è celata dietro personaggi che non affrontando reali difficoltà e che trovano nell’esibizione canora e danzata un modo per andare avanti. Il pubblico, straordinariamente entusiasta per riuscire a trattenere le proprie emozioni, finisce per applaudire alla fine di ogni numero musicale. Spettatori (cinefili e non e di tutte le età) abituati, rispetto alla sola televisione dell’epoca in cui uscì Singin’ in the Rain, ad avere accesso a diversi dispositivi tecnologici, utilizzati anche per guardare film pensati per lo schermo da sala, ma che hanno deciso di riunirsi in questa occasione per poter (ri)vedere il film mediante una fruizione più tradizionale.
Inizio, fine e ritorno del Ventennio. “A noi!” e “Accuso Mussolini!”
A noi! (1922) e Accuso Mussolini! (1945) sono due documentari girati rispettivamente all’inizio e alla fine del Ventennio, che, apparentemente, documentano, fin dai titoli, il trionfo e la caduta del regime fascista. Non ci sono dubbi che il primo film del fascista Umberto Paradisi glorifichi la presa del potere da parte di Mussolini attraverso la Marcia su Roma. Il secondo emerge più ambiguo nella sua posizione di condanna del regime. Certamente sia A noi! che Accuso Mussolini! esemplificano il potere della manipolazione dell’immagine che può portare a quella forma di “fascismo che affascina” su cui ci ha messo in guardia Susan Sontag.
“Blind Husbands” e la crisi della morale
In un contesto fortemente influenzato dalla morale americana e dall’impossibilità di accettare la fine di un rapporto matrimoniale, ecco giungere un punto di rottura proveniente da fuori, dall’Europa in cui Blind Husbands è ambientato. Da una parte abbiamo la morale puritana, dall’altra quella più libertina proveniente da fuori e che sta mettendo a rischio le basi della prima. Il personaggio interpretato da Erich von Stroheim rappresenta proprio l’altra morale, quella che negli Stati Uniti si cercava disperatamente di osteggiare.
“Blind Husbands”: l’esordio di un autore che tutti amavano odiare
L’esordio alla regia di Erich von Stroheim ottenne uno straordinario successo di pubblico, e resta l’unico film che l’autore riuscì a completare secondo la propria volontà. Ma è facile vedere le prime increspature dietro la superficie luminosa dei suoi scenari alpini. Ansioso di mettere a frutto l’attenzione maniacale per il dettaglio assorbita sui set di maestri come Griffith, Stroheim andava già trasformandosi nell’uomo che i produttori (e non solo il pubblico) avrebbero amato odiare, un talento tanto insostituibile quanto ingestibile e straripante.
In the Name of Soul. “The Blues Brothers” e l’abbattimento delle barriere
Ricca di una comicità rocambolesca e catastrofica, la pellicola si caratterizza però soprattutto per i cammei di grandi stelle della black music come James Brown, John Lee Hooker, Ray Charles, Aretha Franklin e Cab Calloway, irrinunciabili punti di arrivo e partenza per chiunque voglia approcciarsi alle sonorità afroamericane. Le loro esibizioni sono pietre miliari del cinema musicale tout-court: si pensi agli essenziali snodi narrativi rappresentati dai brani The Old Landmark, Shake A Tail Feather, Think o al virtuosismo vocale tipicamente nero di Calloway in Minnie The Moocher.
“Deep Throat” ovvero come guardiamo un porno in sala oggi
Qualcuno ha scritto che questo film è un totem. E noi siamo totalmente in accordo con questa definizione di Deep Throat, il film che ha cambiato la storia del porno (o che ha tentato di farlo, anche se poi non è avvenuto, perché ancora oggi la pornografia è un ghetto), un film spartiacque capace di segnare in una immaginaria linea temporale della cinematografia non clandestina (ma legale) un Ante-Deep e un Dopo-Deep, il film che inventò il cosiddetto porno-chic (le coppiette andavano in sala mano nella mano a vederlo), il Via col vento del porno. Un film totem, un vero simulacro, che rappresenta l’essere stesso che è oggetto del culto: il porno.
“La regola del gioco” e la necessità di organizzare l’improvvisazione
Servono poco più di 20 minuti a Jean Renoir per rivelare La regola del gioco: ognuno ha le proprie ragioni. Sedersi al tavolo senza essere adeguatamente preparati o accettarne i meccanismi può risultare fatale, un po’ come accaduto al pubblico che ebbe la (s)fortuna di guardarlo nelle sale nel 1939. Su trentasette recensioni contemporanee all’uscita, quattordici erano ostili, sei ambivalenti, sei favorevoli con riserve e cinque quasi del tutto favorevoli. Messi di fronte ad una verità demistificata, talmente candida da essere bruciante, i critici e gli spettatori non accettarono di vedere il mondo a cui avevano tacitamente aderito privato di una incosciente edulcorazione.