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“Le favolose” e la colorata unione degli opposti
Le favolose è il racconto di un gruppo di amiche trans più o meno di mezz’età che si ritrovano nella casa dove un tempo avevano vissuto insieme, dopo il rinvenimento di una vecchia lettera nella quale una loro amica morta al tempo aveva indicato il meraviglioso vestito verde col quale avrebbe voluto essere sepolta. Nicole De Leo, Sandeh Veet, Sofia Mehiel, Mizia Ciulini e Porpora Marcasciano stessa – tutte “reclutate” da quest’ultima e tutte sullo schermo col nome adottato nella loro vita reale – interagiscono fra loro con l’affetto, la confidenza e la brutalità che solo gli amici fraterni possono permettersi.
“Love Life” a fuoco lento nel quadro domestico
Love Life cerca e trova un tono intimo e convincente, una temperatura calda alimentata a fuoco lento da quadri domestici d’appartamento, da condominii-alveare che li ospitano, fitti e regolari, e dal dialogo fra spazi di abitazioni e esterni – strade e giardini – che si dipana nell’arco dell’intero film. Protagonista è ciò che è dentro e che vi resta, quel che esce fuori e che ritorna a casa, in casa: lentamente si scova in quei passi, scale e terrazzi i veicoli dell’interiorità stessa dei personaggi, e di quanto di questa la proverbiale compostezza giapponese consenta loro di esprimere o trattenere.
Il bilancio finale di Venezia 79
Mai come in questa 79esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, un fil rouge sgargiante ha attraversato ogni film in concorso (e non solo). Perché è indubbio, nel bene e nel male, che si sia riscontrata una coerenza di temi mai così salda come in questa selezione, qualcosa che lega un film all’altro in un gioco di incastri sorprendente, a tratti inquietante. E non si tratta di una sensazione suggerita, forzata, a tratti percettibile: è qualcosa di incredibilmente nitido che fa di un film la controparte dell’altro, in un botta e risposta ideale.
“All The Beauty And The Bloodshed” Leone d’Oro a sorpresa
Perché alla fine è proprio lo spirito inquieto e visionario dell’artista ad emergere con prepotenza dal lavoro di Poitras. Sovrastando la sottotrama riguardante i crimini dei produttori di oppiacei, l’istantanea sul vissuto di Nan Goldin e la sua attività professionale è materia che autonomamente riesce a farsi carico delle implicazioni morali da cui il film trae sostentamento. Lo stile grezzo, sordido e violento che contraddistingue lo sguardo della fotografa è di per sé un’autobiografia dolorosa e un grido di rivalsa sulle costrizioni. Il suo animo indomabile, riversato ed incastonato nei numerosi ritratti, è il vero epicentro sovversivo del saggio documentaristico.
“The Son” e la responsabilità dello spettatore
La forza di The Son sta proprio in questo: rovesciare le nostre radicatissime convinzioni sulla depressione, smascherandone i luoghi comuni. Zeller sceglie di pre-disporre il racconto filmico in tappe più canoniche rispetto all’esordio proprio per ricordarci che i disturbi mentali non possono costituire temi banali e semplificabili, mai. Confinando le azioni quasi esclusivamente in appartamento e senza virtuosismi di sorta, si può dire che il regista si distacchi ben poco dalla matrice teatrale nel tentativo di raccontare una moltitudine di complesse dinamiche intersoggettive.
“I giocatori di scacchi” secondo Satyajit Ray
Protagonista indiscusso dell’opera è il gioco degli scacchi, figurativamente quanto allegoricamente: passatempo di origine indiana modificato dagli inglesi, espressione della cinica logica del rischio calcolato, riduzione della guerra in un inoffensivo contesto ludico. La vicenda dei due incalliti scacchisti è perlopiù farsesca – tolta una sequenza dedicata all’abbandonata moglie di uno dei due, interpretata stupendamente da Shabana Azmi nonostante il ruolo secondario – mentre l’anima tragica dell’opera si condensa nella figura del sovrano.
“L’immensità” troppo vulnerabile dell’autobiografia
Per quanto poetiche, le immagini di grembiuli lanciati fuori dalle finestre, di pezzi di bambola fluttuanti in una piscinetta gonfiabile o ancora le scenette che riprendono gli spettacoli di varietà degli anni ‘70 non sono affatto originali ne riescono a produrre quel coinvolgimento emotivo per cui sono state ideate. Il risultato è un film di buoni sentimenti, che si gode ma poi si dimentica, forse anche all’ombra di opere autobiografiche italiane più celebri che ancora persistono nell’immaginario e nella discussione cinematografica (come È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino).
“Il signore delle formiche” tra collettivo e privato
Il film è costruito attorno a due nuclei. Due metà ben definite. Due luoghi: l’Emilia-Romagna e Roma. Due protagonisti: Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio) e il giornalista Ennio (Elio Germano). Due storie che, per tornare al discorso di prima, mettono in campo una particolare commistione tra discorso collettivo e privato. Di fatto Il signore delle formiche è un film che vuole essere monito sociale e punto di riferimento morale, ma allo stesso tempo si costruisce tutto sulla storia di emarginati che si auto-escludono, serviti da una regia che li circoscrive in sfondi opacizzati chiusi sui loro volti e totalmente disinteressata alle folle.
“The Eternal Daughter” piccolo e maniacale
La storia è quella di una regista e del suo rapporto con la madre. Le due passano qualche giorno in un hotel che un tempo era la magione di famiglia – alla ricerca di ricordi per una storia che sembra coinvolgere emotivamente più la figlia che altri – la donna è tormentata dalla volontà di appagare la madre e da un misterioso clima lugubre che trasuda dalle pareti di uno scricchiolante albergo vuoto. Il tormento, da subito, si concretizza in misteriosi rumori notturni. La donna non dorme, cerca le origini dei suoni e compie una serie di movimenti rituali alla ricerca di qualcos’altro: un ricordo? un mistero? un volto?
“The Kiev Trial” e l’ambivalenza dell’immagine storica
Il film è un collage che riassume i punti salienti di questo processo, nel quale il regista ha scelto cosa mostrare e cosa elidere per permettere a noi spettatori di entrare nella cupa atmosfera del tribunale e sentire le voci di chi ha compiuto e chi ha subito queste ingiustizie. The Kiev Trial è costruito in crescendo, per cui inizialmente si sofferma sui volti, sui nomi, sul lungo lavoro dei traduttori in simultanea che hanno permesso di condurre il processo in russo e tedesco, e poi progressivamente si cede il passo alle testimonianze, che diventano sempre più personali e agghiaccianti, passando da conte sommarie a racconti in prima persona di vittime scampate alle stragi di massa.
“Don’t Worry Darling” e gli inganni della simmetria
Don’t Worry Darling è un film che conferma il gusto estetico di Wilde, ma che, a fronte di un coefficiente di difficoltà decisamente più elevato, tradisce uno stile ancora acerbo ed incapace di gestire al meglio la complessità di un soggetto che pecca di pretenziosità. L’aspirazione sarebbe quella di costruire un film sufficientemente accessibile al grande pubblico ma ricoperto di una patina sofisticata, declinata secondo i criteri di un cinema di denuncia sociale adeguato agli urgenti temi dell’uguaglianza di genere e dell’autodeterminazione femminile. Aspetti delicati quanto travisabili, ai quali il film pare approcciarsi con un eccesso di timore reverenziale.
“Master Gardener” ovvero Schrader l’impeccabile
È un cinema che procede per sottrazione, dove ogni elemento spicca autonomamente, sia che si tratti della rilassante voce narrante del protagonista o del fragore di ossa che si spezzano. Che la scrittura di Schrader sia impeccabile è oramai un fatto assodato, ma in Master Gardener, ancor più che in Il collezionista di carte, riesce a fondere ambientazione e personaggi ai temi portanti della narrazione. Tossicodipendenza e botanica, svastiche e boccioli in fiore si amalgamano alla perfezione in uno dei più interessanti mondi diegetici degli ultimi anni.
“The Whale” tra solitudini e moltitudini
The Whale ci racconta così tante emozioni, talmente prossime alle nostre vite, che qualcuno potrebbe pensare si tratti di un tranello, di un’abile manipolazione che indirizzi agilmente questo film verso un premio, un riconoscimento. Ma non c’è niente di facile e immediato in The Whale, un gioiello di scrittura piccolo come gli spazi che presenta e grande come il protagonista, anzi, i personaggi tutti. Una storia complessa fatta di solitudini e moltitudini, costrette a far stare le loro strabordanti emozioni in confini autoinflitti e pronte a esplodere in una tensione oscura che nasconde una speranza irriducibile.
La luciferina demiurgia di Lars von Trier
Riesumare Riget per Lars von Trier significa rispolverare il suo lato più ferocemente satirico, aggiornandone i bersagli e attingendo al contemporaneo gli oggetti dello scherno, ma è anche perseverare nel percorso di raffigurazione dell’angoscia, concedendo forma alla sua mutevolezza e a tutta la sua assurda alterità. È ancora lo straniamento il materiale grezzo da cui Riget viene forgiato, per replicare anche a distanza di anni la malefica intellegibilità di un presente sempiterno che può acquistare senso solamente se assorbito dall’arte del racconto. Ed ecco dunque il ritorno della centralità della figura dell’autore, sorgente da cui tutto sgorga e strumento ultimo tramite cui tutto deve finire.
“Pearl” come viaggio umorale nell’horror piscologico
Nell’attuale revival retró dell’horror, Ti West si distingue per la seconda volta nello stesso anno, e con maggiore incisività, per un film che sa essere al contempo profondo e leggero, estremamente serio e divertente, misurato ed eccessivo. In un’edizione che fa della paura della morte, dell’espiazione e del senso di colpa i temi caldi della selezione, Pearl è la nota dissonante e scanzonata di Venezia 79, capace di omaggiare e al contempo capovolgere e sublimare i ruoli femminili nella storia dell’horror psicologico.
“Bardo” e il cinema come deflagrazione
Nonostante il risultato appaia più limpido nelle intenzioni che non in quanto effettivamente si veda su schermo, la sensazione di affaticamento con cui si arriva al termine di questi 174 minuti è la naturale conseguenza di un viaggio tutt’altro che privo di intensità. Nel raccontare sé stesso Iñárritu rinuncia alla ricostruzione filologica di eventi personali, mirando soprattutto a ribadire la sua idea di cinema, secondo la quale le emozioni sono, ancor prima che legate alla storia, intimamente connesse alla deflagrazione di immagini e suoni. Il modo migliore per parlare di sé è dunque realizzare un film che è la summa della propria poetica.