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“The Fabelmans” Speciale IV – La via subliminale al classicismo

Non siamo di fronte alla storia straordinaria di un ragazzino che fa amicizia con un extraterrestre o perde i genitori e cresce solo durante la guerra, né di adulti che sbarcano in Normandia per liberare l’Europa dai nazisti o danno la caccia a criminali o truffatori. Siamo invece alla scoperta di come il futuro autore di quelle storie fuori dall’ordinario abbia costruito il suo stile facendo confluire in esso scienza e incantesimo, macchine e emozioni, padre e madre. Non lo si è forse sempre definito il migliore regista di bambini sulla piazza, ma anche un Peter Pan restio a farsi adulto? Bene, The Fabelmans ci dice da dove veniva quell’occhio speciale sull’infanzia e la crescita.

“The Fabelmans” Speciale III – Dove vince la leggenda

Il cinema dimostra qui la sua duplice natura. Da una parte svela quello che l’occhio umano non vede, che la mente relega ai sogni che non si vogliono interpretare (d’altronde, come dice il piccolo Sammy quando per convincerlo a entrare in sala gli viene detto che il cinema è un sogno, “i sogni fanno paura”). E dall’altra crea una realtà alternativa, dove tutto va come deve andare, dove si possono tagliare al montaggio le parti scomode e sbagliate, gettandole nel cestino. Tra verità e leggenda, nel cinema, vince la leggenda. Nel cinema di Spielberg sicuramente, e per noi va benissimo così.

“The Fabelmans” Speciale II – Seeing is Believing

La poetica di Spielberg non è strettamente rinchiusa nell’ottica di una “cinematic society” o nella visione di un autore che cerca l’integrazione dell’individuo nella collettività (americana) della storia, ma è centrata sul punto di vista interno di un cinefilo che ripercorre le tappe della sua formazione senza alcun coup de théâtre, nel concepimento di un “lessico familiare” poeticamente denso e talvolta affilato, che affonda le sue radici in un solo grande movimento cinematografico, il suo, rischiarato dai volti in estasi, svelato dalle impetuose carrellate in cui si palesano il feticismo americano, l’idealizzazione sofferta dell’american way of life, la rappresentazione della famiglia disfunzionale e il cinema come cura e riabilitazione.

“The Fabelmans” Speciale I – La fede nel cinema

The Fabelmans è sì un tuffo nella vita del suo regista ma, di conseguenza, si rivela un viaggio all’interno della sua filmografia. Non si contano gli spiritosi omaggi e le rime interne che rimandano ai suoi film precedenti (le biciclette di E.T. l’extra-terrestre, il manuale su come salvare qualcuno che sta annegando, la porta retroilluminata di Incontri ravvicinati del terzo tipo, la guerra di Salvate il soldato Ryan ecc.), questo perché la vita di Spielberg non è stata accompagnata dal cinema, ma perché è essa stessa cinema, una medicina che rende migliore la vita, che le dà più sapore.

“West Side Story” come manifesto dell’amore di Spielberg per il cinema

West Side Story è il manifesto più esplicito dell’amore che Spielberg nutre nei confronti del cinema. La sua passione, la sua venerazione per la settima arte è paragonabile a un sacramento. Così, più che ricercare e far dialogare la pellicola con i grandi riferimenti del genere, ha senso provare a interrogarsi sulle rime interne alla carriera del regista. Ce ne sono molte, anche se la più ingombrante resta quel para siempre (pronunciato tra l’altro da Rita Moreno che incarna alla perfezione quel siempre, essendo presente tanto qui che nel West Side Story classico) con il quale si chiudeva anche E.T.. Lì una promessa (ir)realizzabile solo grazie al cinema, qui un miracolo certificabile esclusivamente nel cinema.

“Ready Player One” e la rivoluzione nerd

Sarebbe bello sapere cosa ne pensano i cinefili di questa visione oscura che investe la loro più grande passione. Sarebbe bello, anche se a essere onesti le due scene di apertura e chiusura sono indicative: in quella iniziale tutti i cittadini sono immersi nei loro visori di realtà virtuale; in quella finale è il mondo di gioco a venir chiuso il martedì e il giovedì. Tuttavia, a pensarci bene, le due scene reggerebbero anche sostituendo i videogiochi con i film o, perché no, con i libri. In quel caso, probabilmente, cinefili e lettori storcerebbero il naso, noterebbero una stonatura rispetto all’aura tipicamente positiva che circonda cinema e letteratura. Se si tratta di videogiochi, invece, l’alienazione si dà per scontata. E invece no: i nerd dovrebbero ribellarsi allo stereotipo.

Le sonorità postmoderne di “Ready Player One”

Il film è un’opera profondamente citazionista, ma la quantità e la contestualizzazione dei rimandi è tale da (ri)costituire un universo paradossalmente compatto che più che le singole opere (cartoon, videogiochi) cita un’epoca e una cultura: quella pop culture che gli studiosi del creatore di Oasis analizzano per carpire i segreti della sua caccia al tesoro. Se non possono mancare decine di rimandi a videogames e fumetti degli anni Ottanta nelle armi, nei veicoli e negli stessi avatar, sono i vestiti, il look, le atmosfere e la musica a rievocare nei minimi dettagli quella pop-culture che fa emergere il Michael Jackson di Thriller e i Duran Duran, Prince e Billy Idol. La colonna sonora riverbera questo spirito citazionista offrendo pop-hits di quegli anni, ma esprime ancor più l’anima postmoderna del film includendo nello stesso universo sonoro Johann Sebastian Bach e Twisted Sister, Blondie e brani originali di Alan Silvestri, che richiama persino Antonìn Dvořák.

Kane, il Graal, e le chiavi per comprendere “Ready Player One”

Impossibile allora resistere al fascino della vicinanza di The Post, gemello eterozigote a cui l’ultima fatica del regista è legata specularmente. Da una parte il racconto storico ricollocato nel contingente o addirittura nel futuro. Dall’altra la distopia futuribile tesa alla ricerca, nel passato umano e iconografico, della propria identità. Un cinema “dell’omaggio” che passa per il rispolvero del proprio arsenale narrativo, e un cinema autoreferenziale (il campo da gioco sono gli anni ’80 tirannicamente dominati proprio da Spielberg) che sfocia nella celebrazione ultracitazionista di un intero e spesso “altro” mondo di fantasia. Ma siccome il gemello più grande nasce per secondo Ready Player One contiene anche da solo l’intero dualismo, euforia tecnologica e detection esistenziale, baluardo del classico e insieme punto di non ritorno della bulimia auto-ammiccante di questi ultimi anni.

“The Post” tra forma e controllo

Il trentunesimo film di Spielberg è una nuova dichiarazione d’amore alla grandezza dell’essere umano ed ha il valore aggiunto − in un periodo in cui si moltiplicano i casi Weinstein e in cui assistiamo a una rinnovata attenzione femminista al ruolo sociale della donna con i movimenti #MeToo, Time’s Up o il nostrano Dissenso comune − di eleggere ad eroe un personaggio femminile che nella magistrale interpretazione di Meryl Streep riesce a passare da una situazione di confusione e subordinazione psicologica a una determinazione e una solidità imprevedibili.

“The Post” e la potenza delle rotative

Nel film più prototipico sulla libertà di stampa in quel periodo, Tutti gli uomini del Presidente (1976), girato giusto una manciata d’anni dopo, il senso di pericolo imminente per chi si opponeva al potere era opprimente, in pieno accordo col clima sociale post-Watergate. The Post è un film su eventi di ieri sviluppato oggi, in cui la minaccia è burocratizzata, e passa per le aule dei tribunali in cui si rischia di venir condannati o le feste dei circoli sociali dai quali ci si ritroverà certamente esclusi. È un senso di pericolo per i nostri tempi, non caratterizzato dalla paranoia del quotidiano ma dal sentimento di esclusione verso chi detiene il controllo.

“The Post” e la pratica della parresia

The Post è il racconto di Davide che sconfigge Golia, del coraggio di pochi contro la mefistofelica “Ragion di Stato”e di una totale resa della verità in rapporto alle vite dei singoli, ciò che per Foucault coinciderebbe con un vero e proprio atto parresiastico: dall’etimologia greca, la parresia è la libertà di dire tutto, esporre senza censure o filtri la realtà dei fatti anche a costo della vita. E quando il filosofo accusa il sovrano dell’incompatibilità del suo potere con la giustizia sociale e universale abbiamo storie come quella rievocata da Spielberg, un cinema, specialmente nei giorni dell’America di Trump e dell’informazione imbavagliata dal timore dell’esclusione, essenziale per smuovere le coscienze.

“I Goonies”, “Stranger Things” e altre nostalgie anni Ottanta.

Parliamo di I Goonies e dello straordinario ritorno agli eighties nel cinema e nelle serie Tv fortemente alimentato dal fenomeno Stranger Things. La Amblin Entertainment, la casa di produzione fondata da Steven Spielberg e Frank Marshall nel 1981 dopo il grande successo di Indiana Jones e I predatori dell’arca perduta, in pochi anni era stata capace di dare alla luce uno dietro l’altro film che sarebbero rimasti per sempre nella storia del cinema (per ragazzi e non solo): nel 1982 E.T. l’extra-terrestre, nel 1984 i Gremlins, nell’85 tre titoli come Ritorno al futuro, Il colore viola e I Goonies tutti insieme, nel 1986 Fievel sbarca in America, fino a Chi ha incastrato Roger Rabbit nel 1988.

Villeneuve e la fantascienza umanistica, il caso “Arrival”

Approfittiamo di Blade Runner 2049 per recuperare parte della filmografia di Denis Villeneuve, e in particolare il suo rapporto con la fantascienza. The Arrival è solo di un anno fa ma ha fatto molto parlare di sé e si incastona in una tradizione fantastica che tiene ovviamente conto anche di Spielberg e dei suoi Incontri ravvicinati del terzo tipo. Presentandoci un caso limite, quello di un primo contatto terrestre tra l’umano e il non umano, Denise Villeneuve realizza un’opera cosmica, una riflessione filosofica sul linguaggio e il rapporto Io-Altro che ha il pregio di insinuarsi oltre il solito manicheismo rappresentativo.

Venezia Classici 2017: “Incontri ravvicinati del terzo tipo”

La sezione dei classici vuole rendere omaggio al capolavoro di Spielberg a quarant’anni dall’uscita: Incontri ravvicinati del terzo tipo è una storia che potrebbe essere letta come una vera e propria apologia del linguaggio e delle sue componenti pressoché vitali. Ovvero come respirare una ventata d’aria fresca in un microcosmo così chiuso e intimorito dalla paura verso l’Altro come il nostro. È un’estetica totale e senza compromessi quella di Spielberg, che cristallizza il flusso esistenziale in fotogrammi e sequenze di una leggiadria visiva ineguagliata.

“E.T.”: l’alchimia tra Steven Spielberg e John Williams

Se con l’ancora troppo acerbo lavoro giovanile The Last Train Wreck, Spielberg ha prefigurato l’immaginario on the road di Duel e Sugarland Express, è stato con la scoperta degli episodi di Ai confini della realtà, dei fumetti e dei cartoni animati che il cineasta di Cincinnati ha mostrato la sua precoce devozione alla fantascienza innalzandosi dalla strada violenta al cielo stellato