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Il potere grottesco tra “Napoleon” e “Blade Runner”

E se vi dicessimo che Napoleone appariva in Blade Runner? Nell’antro di J.F. Sebastian, nella scena in cui questi rincasa insieme a Pris, vengono ad accoglierli alla porta due creazioni dell’inventore: due pupazzi in alta uniforme vestiti come il Kaiser Guglielmo e, appunto, Napoleone. Un Napoleone un po’ buffo un po’ inquietante, che trotterella emettendo strani versi, parodia del Potere e fantoccio tragico di un mondo in cui tutto è replicante, spossessato del proprio destino e della propria soggettività.

“Thelma & Loiuse” tra solidarietà e vendetta

In diversi studi, Thelma & Louise viene poi annoverato anche fra i rape & revenge insieme ad opere che si focalizzano con maggiore enfasi sulla violenza sessuale, come L’angelo della vendetta o Thriller. Sebbene opinabile come classificazione, le coordinate etiche dell’opera di Scott sono sovrapponibili a quelle di molti film appartenenti a quel genere, dal ginocentrismo antisociale al giusizialismo palliativo.

In fuga su una Thunderbird verde

Il finale è talmente iconico che persino I Simpson se ne sono appropriati per una loro puntata, in cui Marge in fuga in macchina con un’amica si getta sì nel Grand Canyon, ma plana a sorpresa su una colonna di altre vetture epigoni lì ammucchiate, senza sfracellarsi affatto come le Thelma e Louise originali al termine del loro volo liberatorio. Ché poi, in realtà, Ridley Scott e Callie Khouri mica ci fanno vedere la fine di quel volo: in Thelma & Louise, l’epico fermo immagine che immortala le due protagoniste in pieno salto nel vuoto è tutt’altro che fatale. 

La saga aliena oltre la filosofia del fantahorror

Tornano in sala per tre giorni Alien e Aliens – Scontro finale, distribuiti da Lucky Red. Per omaggiare questi due capisaldi della fantascienza dedichiamo qualche riflessione alla saga che hanno inaugurato, fra le più originali e influenti nella storia del genere. Essa rappresenta un grande esempio di fantascienza in grado di proporre un mix di estrema verosimiglianza scenografica e riflessione su temi filosofici, sociologici e tecnologici.

La parabola camp – Speciale “House of Gucci” II

Nella House of Gucci di Ridley Scott non c’è traccia di realtà. L’ultimo film del regista inglese è il prodotto di un falsificante turismo culturale, una lente d’ingrandimento a forma di H(ollywood) che non si limita a scrutare la cronaca, ma la distorce a piacimento. Caricaturale, sgradevole, ma pure divertente e rivelatorio. Come il recente Last Duel, rilettura femminista del costume drama medievale, House of Gucci si rivela essere un’altra moderna operazione di riassestamento del cinema classico, che modella la verità storica nel margine in cui può farne intrattenimento per il pubblico di oggi.

La potenza del troppo – Speciale “House of Gucci” I

Si ha l’impressione che House of Gucci voglia riproporre una lettura pop-satirica un certo modo di vivere un tipo di vita (una vita per pochi) impregnata di comportamenti e personaggi eccentrici, a tratti macchiettistici e in altri casi leggeri e senza riserve; è un lungometraggio che poteva fare a meno di certi errori/orrori (ripetiamo lo scivolone di Jared Leto), di dialoghi contraddittori e inesattezze spazio-temporali, ma la cui potenzialità sta nel definirlo “troppo”. Purché se ne parli, appunto.

“The Last Duel” spietato affresco di indistinzione morale

The Last Duel utilizza la violenza per dipingere uno spietato affresco di indistinzione morale, meschinità e bruto egoismo. In questo sempre più simile a Kubrick, la cui carriera a tratti sembra aver scientemente ricalcato (I duellanti/Barry Lyndon, Alien/2001). Scott tocca qui un vertice assoluto del suo nichilismo misantropico: uomini senza alcun eroismo giostrano come i satelliti in moto inerziale di un Potere gelido e vacuo, così assurdo da rasentare il comico (la grande, saggia prova di Affleck) in nome di un Dio che non c’è, o se c’è è un dio infantile, “più umano dell’umano” e sadico, il Commodo di Il gladiatore, il dio bambino di Exodus. Il miglior Scott dai tempi di American Gangster?

La colonna sonora di “Alien”

È il 1979 quando Ridley Scott (Blade Runner, Thelma & Louise, Il gladiatore) porta sul grande schermo il volto della paura. Un essere mostruoso, creato nelle sue sembianze dal maestro Carlo Rambaldi, che sussurra alle ombre e vive di oscurità, spinto da una forza primordiale che è puro istinto di sopravvivenza e riproduzione. Un’immagine-simbolo, entrata di diritto nell’immaginario collettivo, delle angosce legate all’incapacità umana di comprendere l’ignoto.

Ma gli androidi sognano il noir?

Lo sappiamo: Blade Runner partiva da un romanzo di Philip K. Dick, edito in Italia come Il cacciatore di androidi nel 1971 e poi riproposto traducendo fedelmente il titolo originale, Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?. Da questo elemento editoriale tutto nostrano, possiamo curiosamente notare le due anime del testo: il poliziesco e l’esistenzialismo. Attraverso il capolavoro di Scott, le due componenti si definiscono ancora di più adottando i connotati dell’hard boiled ed esplorando la frontiera cyborg.

Il destino al neon di “Blade Runner 2049”

Per cercare di introdurre meglio Blade Runner 2049 forse bisogna partire proprio dagli elementi da cui si discosta e abilmente si intreccia, nel corso della trama, rispetto a quelli del primo. Se infatti nel cult movie anni ottanta la tematica prevalente è quella della netta distinzione tra ciò che è reale e ciò che è stato creato industrialmente, nel sequel non è così. Si perde quindi l’importanza del discernere e non si vuole rispondere alla significante, ma in fondo futile domanda: “Deckard era un replicante?”. La domanda a cui invece, con tempi lunghi, si accinge a rispondere è: “che cosa è successo a Deckard e a Rachael dopo la chiusura dell’ascensore?”.

Il filo del rasoio in “Blade Runner 2049”

Nella proficua dialettica fra cinema di ieri e franchise – che proprio con questo film si cerca di definire avviando una saga – l’appeal di BR pendeva insomma decisamente verso il primo. Le decisioni prese non sembrano tenerne conto, a partire dal coinvolgimento di Fancher (sceneggiatore del primo film) e di un cineasta scrupoloso ed umile come Villeneuve. Ogni riferimento è seccamente funzionale alla trama, il massimo rispetto per l’originale tradotto nel minimo di deferenza. Il regista canadese non evoca fantasmi e la sua fiducia nella vitalità del materiale a disposizione si traduce in rigore e coerenza degnissimi del principale caso recente di autore prestato ad Hollywood.

“Blade Runner 2049” e il mood della fantascienza contemporanea

Villeneuve, invece di proporre qualcosa di nuovo ma uguale, utilizza il capolavoro di Scott del 1982 come fosse una mappa su cui tracciare un sentiero sinceramente diverso. Un sentiero che intercetta il mood della fantascienza contemporanea, se ne impossessa caldamente pur mantenendo atmosfere che guardano ad Andrej Tarkovskij e che ha davvero la coerenza narrativa e immaginifica per accadere 30 anni dopo gli eventi del primo film. Ecco perché Blade Runner 2049 è un sequel decisamente riuscito.

“Alien: Covenant”, intrattenimento old school o boiata pazzesca?

Update! Viste le reazioni contrastanti e appassionate che Alien: Covenant sta suscitando, abbiamo allargato l’apporofondimento critico a un confronto a due. Leggiamo dunque la sfida tra Gregorio Zanacchi Nuti e Francesco Cacciatore, che disputano intorno alla bontà del film.

“The Martian”: il ragazzo del pianeta accanto

“There’s a starman waiting in the sky” canta David Bowie nel recente The Martian di Ridley Scott in programmazione in questi giorni al cinema Lumière. L’uomo delle stelle in questo caso si chiama Mark Watney (Matt Damon), è un astronauta americano e sta aspettando che qualcuno lo venga a salvare dopo che i suoi compagni di missione, credendolo morto, lo hanno lasciato solo su Marte con pochissimi viveri. Purtroppo ogni contatto con la Terra è un miraggio e la prossima missione su Marte non arriverà prima di 4 anni. Mark si trova quindi a dover scegliere: arrendersi a una morte certa o combattere con i pochi mezzi a disposizione. Nella migliore tradizione americana – never give up – Mark sceglie di non arrendersi.