Archivio
“Django” di Sergio Corbucci rivoluzionario e nichilista
Django è l’antitesi del western leoniano, in particolare della Trilogia del Dollaro inaugurata dal seminale Per un pugno di dollari. Se Leone ha espresso e continua a esprimere la sua idea di western, è come se Corbucci dicesse “ecco, per me il genere è quest’altra cosa”. Se Clint Eastwood in Per un pugno di dollari giunge a cavallo con indosso un poncho messicano e arriva in un villaggio polveroso, abbagliante e bruciato dal sole, Franco Nero in Django arriva a piedi vestito con un’uniforme nordista, trascinando una bara in un paesino dalla luce grigia e crepuscolare dove tutto è ricoperto dal fango (ma a sua volta anche Corbucci girerà degli western in altre ambientazioni, dai paesaggi innevati de Il grande silenzio a quelli arsi dal sole di Navajo Joe).
“Fellini e l’Ombra” evocazione onirica del Maestro
Fellini e l’Ombra ha innanzitutto il merito di essere, probabilmente, il primo film a trattare con cognizione di causa il rapporto di Fellini con i sogni e la psicanalisi, il suo mondo interiore e più nascosto, il “Fellini sommerso”, cioè quell’Ombra del titolo che va rigorosamente in maiuscolo, come a voler identificare un’essenza quasi vivente. Ma ciò che colpisce della regia di Catherine McGilvray è anche la pluralità di linguaggi usati, con uno stile e un montaggio volutamente schizofrenici, non lineari, perché solo così è possibile parlare di una materia impalpabile come i sogni.
“Vampyr” di Dreyer o la verità sullo strano caso di Mister Gray
Dreyer costruisce la storia con una sorta di tableaux vivants, situazioni paratattiche e giustapposte dove la consecutio logica e temporale è soltanto accennata, per dare vita a sensazioni eteree, funeree e sepolcrali – in un certo senso, vedere Vampyr è un po’ come leggere una macabra poesia, dove i rapporti di causa/effetto non seguono la logica comune. Certo, un andamento narrativo c’è, ma la diegesi sembra affidata soprattutto al fluire degli incubi, al magma dell’inconscio, a un precipitare da un mondo all’altro proprio come accade nei sogni, il che fornisce al film un coté altamente evocativo e affascinante.
“Prima pagina” e il senso di Billy Wilder per la commedia
Prima pagina è la terzultima opera di Wilder, prima di Fedora e Buddy Buddy, un’epoca in cui il regista ha già abbracciato definitivamente il colore, mantenendo una cura certosina nella fotografia dal gusto vintage: un film significativo innanzitutto nella misura in cui testimonia la caparbietà del regista nel non farsi influenzare dalle correnti della New Hollywood, sempre più dominanti nel cinema americano degli anni Settanta, per proseguire con successo una riproposizione – anche se rinnovata – dei modelli classici.
La sfarzosa summa dell’immaginario fantastico di Fellini
La psicologia (o, per l’esattezza, la psicanalisi) non è intesa da Fellini come una scienza esatta, quanto piuttosto una continuazione, un trait d’union, col mondo della magia e del soprannaturale, per cui lo spiritismo, i sogni e i ricordi sono come facce della stessa medaglia, di quel mondo “altro” che lui si proponeva di indagare non solo attraverso i suoi film, ma anche nella vita quotidiana. Ebbero un’ampia influenza su di lui le teorie dello psicanalista junghiano Ernst Bernhard, ma anche esperienze più estreme: l’uso controllato di LSD, l’avvicinamento alla magia, ai tarocchi, alle sedute spiritiche. Alla luce di questo, è quindi palese la primaria importanza che Giulietta degli spiriti costituisce non solo per il suo modo di vedere il cinema, ma anche per la sua interpretazione della realtà.
“Mulholland Drive” come summa dell’universo di David Lynch
Per utilizzare un celebre aforisma, Mulholland Drive (2001) è un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Il che, va detto, si può applicare a ogni opera di David Lynch – e poco importa che si tratti di un lungometraggio, di una serie TV o di un corto – ma è una definizione che calza in modo particolare per alcuni dei suoi più celebri film, dove l’universo onirico, visionario e psichedelico deflagra con tutta la forza possibile. Mulholland Drive, che è finora il suo penultimo film e l’ultimo girato in pellicola, è una summa, una sorta di compendio dell’universo lynchiano, in grado di raggiungere un apollineo equilibrio tra il carattere anti-narrativo di film estremi come Eraserhead e Inland Empire e il racconto più classico che troviamo in noir quali Velluto blu e Cuore selvaggio.
Le vie del thriller italiano. “Ai confini del male” tra Twin Peaks e il mostro di Firenze
Invece che True Detective, sarebbe forse più giusto citare Twin Peaks di David Lynch, a cui Vincenzo Alfieri sembra ispirarsi, insieme a fatti di cronaca nera come il Mostro di Firenze. Il microcosmo di Velianova è intriso di nichilismo fino all’osso, un nichilismo che si esplica in atti di violenza e perversione – le reiterate inquadrature sui ragazzi prigionieri, con Luca che viene drogato e marchiato a fuoco su un braccio, ma anche le esplosioni rabbiose di Meda e i festini del conte – e un Male (definito come “necessario” dal giornalista) sempre in bilico fra la dimensione immanente e quella esoterica.
Nascita del poliziesco italiano di impegno civile. “La Confessione” di Damiano Damiani
Il cinema di Damiani – parliamo di quello che va dalla Confessione ad altre pietre miliari come Perché si uccide un magistrato, Io ho paura e L’avvertimento, fino agli epigoni – è un cinema basato su un compromesso, su un’armoniosa intersezione fra cinema “alto” e cinema “popolare”, fra “autore” e “genere”, definizioni ormai ridotte a etichette che lasciano il tempo che trovano. Perché Damiani, con un pugno di film, è stato in grado di unire un tipo di cinema poliziesco e spettacolare con acute indagini sui fenomeni più scottanti dell’Italia di allora, e che trovano un’inquietante corrispondenza anche in quella di oggi
“BAC Nord” polar sui generis
BAC Nord ha fatto molto discutere poiché accusato di essere un film impostato ideologicamente a destra (a differenza, per esempio, de I miserabili), con una distinzione manichea fra i delinquenti, quasi tutti immigrati, e i poliziotti, agenti onesti che finiscono vittime del sistema. Ma sappiamo che le reinterpretazioni ideologiche lasciano quasi sempre il tempo che trovano, e BAC Nord non fa eccezione, perché i poliziotti non sono rappresentati né come santi né come superuomini, bensì come uomini corruttibili e resi tali da un lavoro infame.
Struggente e innovativa ode alla vita. “Il cieco che non voleva vedere Titanic” di Nikki Teemu
Il cieco che non voleva vedere Titanic è una struggente storia d’amore a distanza – che culmina poi in un sentito e sincero abbraccio con la ragazza – fra due ammalati, due emarginati. Quello di Jaakko è un viaggio (im)possibile, che riesce a superare le barriere per amore, un’impresa che viene descritta nelle sue varie fasi (sempre restringendo le inquadrature al suo volto sofferente e al mondo esterno sfuocato), con una pluralità di linguaggi che ad un certo punto sfocia anche nel thriller. Ma, come suggerisce il titolo, il film di Teemu è anche un meticoloso omaggio cinefilo.
“Rhino” e il romanzo criminale ucraino secondo Oleh Sentsov
Il romanzo criminale costruito da Oleh Sentsov non è pomposo e magniloquente come Il padrino o Scarface, ma più “umano” – se così si può definire – improntato cioè alla messa in scena nuda e cruda dei personaggi, diretto e narrato in modo asciutto, quasi documentaristico, con uno stile frenetico che concede poche pause (brevi ma significative, come i dialoghi con l’uomo in auto, su cui bisognerà tornare). E la regia non vuole mettere in scena un grande impero del crimine, bensì una micro-criminalità che in parte è già insita nella persona ma che in parte è descritta come risposta a una vita difficile, fatta di indigenza, problemi familiari e una società dove il singolo rischia di perdersi.
(Anti)mitologia della Frontiera. “Old Henry” e il western psicologico
Old Henry è un western dalla forte componente drammaturgica, improntato alla messa in scena della psicologia dei personaggi. Si inserisce così nella tradizione del western che si siede sul lettino dello psicanalista, in voga fin dagli anni Cinquanta, e soprattutto demitizza la Frontiera, dipingendo un West nerissimo e violento in cui la mitologia degli eroi va a braccetto con la sua decostruzione (non a caso, è ambientato nel 1906, quando l’epopea della Frontiera si avviava verso la sua conclusione): un percorso intrapreso dal cinema western fin dagli anni Sessanta, e che trova forse l’espressione definitiva nel capolavoro Gli spietati (1992) di Clint Eastwood, un film con cui il nostro sembra avere una certa parentela.
“Mon père, le diable” e il Male come condizione ontologica
La regista camerunense Ellie Foumbi, attiva da anni a New York e con una solida gavetta fatta di corti e partecipazioni festivaliere, esordisce nel lungometraggio con il nerissimo e potente Mon père, le diable (2021), un’opera prima di produzione francese che lascia il segno. Autrice a tutto tondo – scrive anche soggetto e sceneggiatura – la Foumbi dimostra una notevole conoscenza della tecnica cinematografica, e una forza narrativa per niente scontata, per cui riesce a mettere in piedi un dramma psicologico che tratta la piaga della guerra e la vendetta con le cadenze di un thriller in piena regola (non è azzardato tirare in ballo il modello polanskiano de La morte e la fanciulla).
“L’uomo che uccise Liberty Valance”. C’era una volta il West(ern) secondo John Ford
Non è azzardato sostenere che L’uomo che uccise Liberty Valance sia il primo grande epitaffio funebre del mito del West, ed è curioso come sia proprio Ford – l’incarnazione apollinea del genere western, colui che rappresenta “il” western americano per eccellenza – a metterlo in scena. John Wayne – l’attore più rappresentativo dell’epica fordiana, da Ombre rosse e Il massacro di Fort Apache a Sentieri selvaggi – interpreta un po’ il ruolo che da sempre gli è stato cucito addosso, cioè l’eroe del West, il pistolero, l’uomo che usa la pistola e si fa giustizia da sé, e che incarna poi la mitologia stessa della Frontiera. L’uomo che uccise Liberty Valance è il cinema western che riflette su sé stesso, e la conclusione è amarissima: il procuratore legale, l’uomo dell’epoca moderna – colui che ha basato la sua popolarità e quindi la sua carriera politica su una menzogna – diventa una celebrità rispettata, mentre il pistolero, l’uomo del vecchio West, muore da solo e dimenticato da tutti; il vecchio eroe e il vecchio mondo muoiono, per lasciare spazio a quelli nuovi, con una marcata componente di tristezza e nostalgia.
“L’uomo dal cranio rasato” di André Delvaux tra cinema d’avanguardia e surrealismo kafkiano
Negli anni di Delvaux muoveva i suoi primi passi, tra Francia e Polonia, anche Roman Polanski, uno dei più grandi registi in grado di trasporre nel cinema la pazzia e la paranoia: Repulsion nasce lo stesso anno del primo film di Delvaux, ed è affascinante pensare a una reciproca confluenza fra lo stile e le modalità narrative dei due registi. L’uomo dal cranio rasato è imbevuto anche di un coltissimo sostrato letterario, più o meno diretto, dalla filiazione originale col romanziere Johan Daisne a un coté che fa pensare a Franz Kafka, il quale già tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento mostrava un gusto particolare per la messa in scena dell’assurdo e del surreale.
“Una bella grinta” di Giuliano Montaldo. La Nouvelle Vague italiana e il lato oscuro del boom economico
L’opera di Montaldo arriva prima della contestazione sessantottina (“prima della rivoluzione”, per usare la citazione di Talleyrand che introduce l’omonimo film di Bertolucci), anticipando le tematiche e i tempi come solo i grandi registi sanno fare, ma se vogliamo è anche attualizzabile all’economia neo-capitalista di oggi, confermandosi come un classico che sa essere specchio del suo tempo ma anche estensibile ad altri contesti. Se Vittorio De Sica metteva alla berlina il successo economico ne Il boom, con Alberto Sordi, in un film sospeso fra il drammatico e il grottesco, Una bella grinta è un film nerissimo e disperato, anche politically uncorrect se vogliamo, che sfocia quasi nei territori del noir: è l’urlo di un borghese rampante che soffre di una specie di bulimia capitalista, ma anche la presa di coscienza degli operai, e la sofferenza di una moglie ingabbiata in un mondo che le va stretto e al quale però risulta impossibile ribellarsi.
“Viale del tramonto” trent’anni dopo. “Fedora” di Billy Wilder e la nostalgia del tempo perduto
Fedora è un’opera che, pur non essendo celeberrima come la precedente né così importante per la storia del cinema, rappresenta senza ombra di dubbio uno dei più grandi omaggi al mondo della Settima Arte (affascinante ma illusorio e spietato). Il punto di partenza, in realtà, viene dal romanzo omonimo dell’attore e scrittore Tom Tryon, ma Wilder – che oltre alla regia firma la sceneggiatura – lo modella a proprio piacimento, costruendo un dramma dove i riferimenti a Sunset Boulevard sono molteplici, inseriti però in una vicenda differente, più complessa, e che in certi momenti sfocia nel thriller psicologico.
“Sciacalli nell’ombra” di Joseph Losey e il noir dell’homme fatal
Sciacalli nell’ombra è un hard boiled di classe, che riprende nell’impostazione iniziale il meccanismo di un capolavoro come La fiamma del peccato: i due amanti, un’eredità da incassare, un marito di troppo, un delitto destinato a essere scoperto. Losey però va oltre la semplice mimesi, e anzi sovverte il ruolo dei personaggi: se nel film di Billy Wilder era la splendida Barbara Stanwyck a progettare l’omicidio del marito coinvolgendo Fred MacMurray in una spirale delittuosa senza fine, qua il motore non è la femme fatale (che di fatale, vedremo, non ha molto), bensì l’uomo.
L’età aurea della sophisticated comedy. “Il ventaglio di Lady Windermere” di Ernst Lubitsch
Parlando di Luci della città, si diceva di come Charlie Chaplin riuscisse a comunicare le emozioni con la sola forza delle immagini. Lubitsch è innegabilmente lontano dallo stile di Chaplin, eppure si percepisce a pelle una simile concezione dell’immagine come potere espressivo, che si traduce nei primi piani sui personaggi e nei dettagli, a cui il regista presta sempre un’attenzione certosina: l’uso delle didascalie è ridotto, e a parlare, come sua abitudine, sono innanzitutto le immagini. Il cinema di Lubitsch è marcatamente estetico, è una gioia per gli occhi, è una bellezza trascendente riconducibile a quello che certi filosofi chiamavano “il bello in sé”.
L’elegia del clown triste. Charlie Chaplin e “Luci della città”
È un cinema fatto tutto di sguardi e di dettagli, di campi e controcampi, è un uso emotivo delle immagini che si fa pura poesia visiva, sostenuta da una colonna sonora particolarmente malinconica; una poesia che si ripeterà nei numerosi incontri fra i due e tornerà specularmente nel commovente finale, intriso di amore puro e platonico: quando cioè la ragazza ha riacquistato la vista, e capisce l’identità del suo benefattore solo toccandogli la mano. I pannelli coi dialoghi scritti sono ridotti al minimo, e Chaplin manifesta i sentimenti con un uso archetipico e primigenio delle immagini e della musica, confermandosi un genio assoluto della storia del cinema.