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“Beach Rats” a Gender Bender 2017
È un’altra parabola di formazione l’opera seconda di Eliza Hittman, premiata al Sundance 2017 per la regia di Beach Rats. Un coming of age lungo il tempo di un’estate, passata a bighellonare tra Brooklyn e il lungomare psichedelico di Coney Island, con i suoi neon intermittenti, i luna park decadenti e le sale giochi affollate di adolescenti in branchi. È questo l’habitat naturale di Frankie, 19 anni, un padre malato di cancro in casa e una gang di perdigiorno come compagni di sballo e bevute. Ma anche un segreto da nascondere: il sospetto di un’omosessualità latente e ancora incerta.
“England Is Mine” a Gender Bender 2017
“England is Mine, and it owes me a living”. L’esordio nel lungometraggio di Mark Gill, già candidato all’Oscar per il corto The Voorman Problem, viene direttamente da un verso di Still Ill, uno dei brani con cui gli Smiths debuttarono sulla scena alternative rock di Manchester nel 1984. Ma, in questo film, degli Smiths non si sente nemmeno una canzone. Perché Gill sceglie di raccontare la vita di Steven Morrissey soffermandosi sugli anni della tarda adolescenza, prima della fondazione della band, e soprattutto perché England Is Mine è un biopic non autorizzato.
“A Quiet Passion” a Gender Bender 2017
L’adagio è noto: portare sullo schermo le vite di scrittori e letterati è impresa sdrucciolevole e destinata al fallimento, figuriamoci poi se si parla di poeti. La lirica eccede per definizione la norma linguistica, e le immagini rischiano di ridursi alla tautologia, al doppione inerte della parola. Ci sono riusciti, tanto per dire, due come Pablo Larraín (Neruda) e Jane Campion (Bright Star), e ci prova Terence Davies che, dopo essersi cimentato già nel 2001 con un adattamento radiofonico di Le onde di Virginia Woolf, concepisce un ambizioso biopic sulla poetessa americana Emily Dickinson.
“After Louie” a Gender Bender 2017
Prende avvio la 15a edizione del Gender Bender, e le danze si aprono con After Louie di Vincent Gagliostro, già presentata al London LGBT Film Festival. Quest’opera prima dal piglio sicuro comincia proprio laddove terminava 120 battiti al minuto di Robin Campillo, con la breve parentesi amorosa tra Sam, cinquantenne ex attivista di Act Up, e Braeden, che ha una relazione aperta con il compagno sieropositivo. Ma Sam ha 55 anni e Braeden “quasi 30”, Sam abita in un attico di Manhattan e Braeden in un monolocale di Brooklyn e, soprattutto, Sam ha vissuto sulla propria pelle tutte le battaglie civili dell’associazionismo gay newyorkese, e non può credere che la generazione successiva alla sua sia così ripiegata nel privato, placidamente disinteressata, indifferente ed esclusa rispetto a una comunità LGBT ormai disgregata.
Riti di passaggio: “A Ciambra”
Dopo il successo di critica del suo lungo d’esordio, Mediterranea, Jonas Carpignano rimane fedele ai suoi personaggi, ai suoi ambienti, alla sua precisa e personale idea di cinema. Un cinema della macchina a mano, della fotografia sporca, del pedinamento e dell’aderenza al reale, da raccontare con lo sguardo lucido e disincantato di chi non vuole giudicare, ma portare alla luce una porzione di mondo dimenticata. E si dà il caso che questa porzione di mondo sia la “Ciambra”, il campo rom nei dintorni di Gioia Tauro dove il giovane regista italoamericano si trasferisce e si apposta, in attesa di catturare un microcosmo con i suoi abitanti e le sue leggi.
“Cavalo Dinheiro”: la nostra recensione
Se il cinema di Costa può lasciare perplessi e persino un po’ intimiditi per il rigore quasi ascetico della messa in scena, la rarefazione dei tempi e lo scardinamento della narrazione tradizionale, proprio la visione dei suoi lavori precedenti può aiutare a penetrarne la complessità e la ricchezza: Cavalo Dinheiro, infatti, si pone idealmente a conclusione della “trilogia capoverdiana” di Costa, avviata con Ossos (1997) e poi proseguita con Juventude em marcha (2006). Il film esplora infatti la realtà degli immigrati capoverdiani a Lisbona, e la loro difficile condizione di vita nel quartiere malfamato di Fontainhas.
“Suffragette”
Dopo Brick Lane, che racconta dei matrimoni combinati nella comunità bengalese a Londra, la regista britannica Sarah Gavron torna a riflettere sull’identità, i ruoli e le discriminazioni di genere, andando questa volta al cuore e alle origini del femminismo. Nel raccontare la lotta per il diritto di voto nell’Inghilterra degli anni Dieci, Suffragette (in programmazione fino a lunedì 7 marzo al cinema Lumière in lingua originale sottotitolata) si cimenta infatti nell’arduo compito di riscrivere un capitolo fondativo della storia dell’emancipazione femminile, clamorosamente ignorato – almeno finora – sugli schermi cinematografici.