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Il cinema d’autore totale – Speciale “L’ufficiale e la spia”

il film arriva in una fase delicatissima della sua carriera, non solo per quanto concerne i contraccolpi del privato sul lavoro e sull’immagine pubblica, ma anche per il momento storico e politico in cui ci troviamo. Dunque, mettendo da parte le vicende personali benché di dominio pubblico, L’ufficiale e la spia è anche il metronomo che misura il nostro tempo. E allora: il rigurgito antisemita, le fake news che postulano lo stesso caso Dreyfus, il ruolo degli intellettuali incapaci di persuadere il popolo, le tentazioni autoritarie in ambiente militare che subentrano laddove regna il caos, la generale intolleranza dominante nella narrazione dei nazionalisti. Su questi elementi si fonda una rievocazione che non va letta soltanto nella prospettiva di un period drama ma soprattutto in quanto allegoria di un’epoca (contemporanea: ieri come oggi e così anche domani) attraversata dalla non-cultura del sospetto e dell’odio.

“Storia di un matrimonio” e la terapia incompiuta

La cosa straordinaria di Storia di un matrimonio è che “è quello che è”, come direbbero in The Irishman. Cos’è, se non ciò che appare? È una commedia drammatica post-alleniana dentro l’orizzonte newyorkese: non a caso Los Angeles è vista come una cartolina lontana, il luogo dove agli occhi del protagonista, Charlie, viene meno l’autenticità delle relazioni e si rivela la rottura forse irreversibile con la moglie, Nicole. È, ancora, una versione di Scene da un matrimonio che incrocia sprazzi di mumblecore. È il racconto di una separazione che aggiorna il “divorce movie” alla Kramer contro Kramer ai progressi del diritto di famiglia. È, come la trenodia di Martin Scorsese, un altro commiato allo spirito, ai luoghi, ai colori, agli umori della New Hollywood con i soldi di Netflix.

Dopo il “carrello”, torna in scena “Kapò”

Riprendere in mano un film del passato costituisce spesso l’occasione per ripensarlo alla luce del tempo trascorso, rendergli giustizia perché incompreso all’uscita oppure ridimensionarlo rispetto ai giudizi dell’epoca. Il caso di Kapò, restaurato in 4K da Cineteca di Bologna e Cristaldi Film, è abbastanza particolare. Secondo opus della parca carriera di Gillo Pontecorvo, buon successo di pubblico, candidato all’Oscar per il miglior film straniero, è stato negli anni un po’ trascurato, quasi dimenticato e perfino scalzato dalla fortuna di un celebre e violento intervento critico: “il carrello di Kapò” – reso immortale da un fondamentale saggio di Serge Daney così intitolato – è un’espressione entrata nell’immaginario cinefilo, al punto che anche chi non l’ha mai visto lo prende a metro di paragone per tutte quelle scene che non andrebbero spettacolarizzate.

“Cecchi Gori – Una famiglia italiana” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Si sa, la storia del cinema italiano è talmente avventurosa, picaresca, stratificata da prestarsi a mille prospettive dalle angolazioni più disparate. Un testo aperto che è al contempo storia e leggenda, cronaca e mitologia, sogno e incubo. Concentrarsi sui produttori è una delle tante possibilità, probabilmente non tra le più coltivate per quanto esistano “episodi” molto interessanti (la monografia Dino di Tullio Kezich su De Laurentiis, i documentari su Goffredo Lombardo e Franco Cristaldi). A Simone Isola, a sua volte produttore ma anche docente universitario, va riconosciuto anzitutto il merito di proseguire su questa strada, dedicata al racconto di personalità che sapevano unire la visione di un progetto artistico e la vocazione mercantile.

“Le ragazze di Wall Street” e la narrazione della crisi

Nella grande narrazione già decennale della crisi finanziaria, Le ragazze di Wall Street è un tassello tra i più intriganti. Non solo perché costituisce un esaltante incrocio tra l’ascesa criminale di una ragazza del ceto medio-basso travolta dall’estasi tossica dei soldi facili e l’affresco socio-culturale di un mondo raccontato con un palpabile senso della fine, come si vede nel clamoroso momento in cui il rapper arriva nel locale lanciando banconote in aria e tutte le spogliarelliste si esibiscono appagate e compiaciute. Ma anche perché, con una notevole profondità nel definire contesti e psicologie senza moralismi né indulgenze, ha una capacità di farci immergere in un film feroce, divertente e vorticoso, fondato sulla polisemia del desiderio in un orizzonte dove gli uomini sono stupidi bancomat, violenti predatori, padri assenti.

“The Irishman” e la vertigine del canto funebre

Non c’è etica e non c’è epica: non c’è niente di affascinante in chi ha scelto il male perché gli altri posti erano occupati o più scomodi, non c’è la mitologia degli angeli caduti costretti alla criminalità per colpa di una società ostile, non c’è nessuna attrazione verso corpi anziani ringiovaniti artificialmente grazie a miracolosi effetti speciali. E se i volti di Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci ritrovano giovinezze perdute, i movimenti sono già quelli incerti di coloro che hanno visto scorrere troppo sangue. Spingendosi nei territori di Robert Zemeckis e Steven Spielberg dove la tecnologia è al servizio dell’umanismo, Scorsese alza la posta e porta il cinema ai confini del possibile, (re)inventando, per questo film fortemente desiderato, un passato impossibile al fine di produrre qualcosa che ai nostri occhi sembra davvero impressionante.

“Honey Boy” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Incipit: sul set di un disaster movie, un giovane attore viene scagliato contro un palazzo in fiamme. Stacco: un attore bambino riceve una grande torta in faccia. L’attore è lo stesso, in due momenti diversi della breve carriera: è uno che subisce, accumula, incassa. Un corpo a disposizione della macchina-cinema. Si scrive Otis Lort, si legge Shia LaBeouf: un giovane attore, già baby star, affetto dal disturbo da stress post-traumatico, che, dopo un incidente avvenuto in stato di ebbrezza, viene ricoverato in una struttura per la riabilitazione. Senza reticenze né pudori, con una consapevole tensione liberatoria, Honey Boy è letteralmente il film della vita dell’antidivo maudit: un’autobiografia per immagini ma anche una rinascita.

“The Farewell” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Dopo il successo (ma non da noi) di Crazy Rich Asian, The Farewell costituisce un nuovo tassello della narrazione sulle minoranze rivolta alla fruizione di un pubblico popolare e trasversale. Se in quel caso c’era la commedia matrimoniale a rappresentare lo spazio in cui raccontare una comunità poco considerata dal cinema americano se non con stereotipi e macchiette, qui c’è l’universalità del family drama a favorire il coinvolgimento nell’avvicinarsi a una cultura diversa. Benché sia ambientato in Cina, il film è filtrato attraverso lo sguardo di una protagonista ormai cinoamericana alla ricerca di un equilibrio tra il sistema di tradizioni e costumi della società d’origine e l’adesione alla mentalità della terra che l’ha accolta e con cui intrattiene un rapporto complesso (lo spaesamento finale nella metropoli).

“Gli anni amari” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Se il biopic è il non-genere più pericoloso da maneggiare, Gli anni amari dimostra bene quanto sia temeraria l’operazione di rimettere in scena una vita vera, specialmente se il soggetto raccontato è un personaggio cruciale per la storia italiana quanto al contempo un po’ trascurato come Mario Mieli. Tra i fondatori del movimento omosessuale italiano, autore del capitale Elementi di critica omosessuale, Mieli (interpretato dall’esordiente Nicola Di Benedetto), nato in una ricchissima famiglia di industriali ebrei, fu attivista, teorico, performer, scrittore, rivoluzionario. Per restituirne la complessità e la rilevanza culturale, sfiorando qua e là l’agiografia, Gli anni amari non rinuncia a un approccio didascalico, seguendo l’ordine cronologico degli eventi compresi tra il 1969 e il 1983, periodo rievocato ora con felici intuizioni (la precisione degli oggetti d’arredamento, canzoni per una volta non banali come quelle del Banco del Mutuo Soccorso) ora con qualche elemento posticcio di troppo.

Un film con Catherine Deneuve è sempre un film su Catherine Deneuve

Immagine inevitabile di una regina (Asterix & Obelix al servizio di Sua Maestà), Catherine Deneuve è tra le poche della sua generazione a occupare ancora posizioni da protagonista (Elle s’en va, Piccole crepe, grossi guai, Quello che so di lei) e da comprimaria si concede il lusso di rivendicare una sfrontata modernità, come accade quando amoreggia con un gorilla in Dio esiste e vive a Bruxelles. E se in Potiche collimano tante suggestioni di una carriera sconfinata (gli ombrelli di Cherbourg, il ménage con Gérard Depardieu, la vita segreta della bella di giorno…), in Le verità il meccanismo si fa ancora più sofisticato e ambiguo, portando ai confini dell’auto-fiction la materia romanzesca, qui trasfigurata anche in un memoir pieno di omissioni, reticenze, revisioni della realtà e che elude i fantasmi della vita.

“La scomparsa di mia madre” e l’ostilità delle immagini

Fondato su una dialettica squilibrata, il documentario (di osservazione e di partecipazione) si edifica su due elementi in apparenza distanti eppure legatissimi: il primo è il conflitto tra lo sguardo innamorato di Barrese che pedina, cattura, invade il territorio e la presenza recalcitrante e contraddittoria di Barzini che insulta, ragiona, ammicca; e il secondo è l’amore, dove le facili suggestioni edipiche sono meno interessanti dei non-detti, chiave di lettura importante dal momento che Barzini vuole far emergere il valore del non-visibile inaccessibile all’obiettivo fotografico.

“Vivere” e il racconto della rinuncia

Scegliendo la rappresentanza (sia del potere sia del ceto medio) anziché la rappresentazione, Vivere non riesce a trovare una cifra se non nella prospettiva di un racconto mancato e manicheo. Quasi per eludere il problema, si dedica al ménage di una coppia in sfacelo, con una donna stanca in apnea nel traffico della capitale e un uomo-bambino incapace di empatia. Ci mette dentro una bambina cagionevole, un ragazzino cocainomane, un medico premuroso, un vicino di casa solo al mondo. Individua un filtro nello sguardo della studentessa irlandese ospitata dai protagonisti per un anno. In origine, Vivere si sarebbe dovuto chiamare Un anno in Italia: una rinuncia che sembra una dichiarazione d’impotenza.

Una storia hollywoodiana in purezza – Speciale “C’era una volta a… Hollywood” I

C’era una volta a… Hollywood: esplicitamente alla maniera di Sergio Leone, che nelle sue elegie terminali non raccontava la verità ufficiale ma quella mediata, ripensata, reinterpretata dal cinema. Quentin Tarantino è uno che ha sempre fatto un cinema dentro il cinema, cinefilo nella misura in cui l’amore feticista per i film s’incrocia con l’operazione romanzesca di recuperare il tempo perduto che essi rievocano. E quindi esplorarlo, ribaltarlo, possibilmente rivoluzionarlo. Quella dell’ultimo film dell’autore è una “Hollywood story” in purezza: una parabola che si muove in un contesto dove la messinscena è una chiave d’accesso alla realtà perché i suoi abitanti ragionano secondo la logica della finzione. 

“Tiro al piccione” di Giuliano Montaldo a Venezia Classici 2019

Negli anni della narrazione antifascista (Tutti a casa, La lunga notte del ’43, Era notte a Roma, Un giorno da leoni per citarne alcuni esempi), Montaldo si dimostra subito cineasta di grande tolleranza e dallo spirito sinceramente democratico: ciò che gli sta più a cuore è capire l’orizzonte umano di un ragazzo, arruolatosi volontario a Salò, che non ha mai conosciuto altro mondo all’infuori di quello fascista. Pur basata sul testo di Rimanelli, è un’operazione complessa, perché il regista si ritrova a dover costruire un personaggio nuovo per un cinema italiano invece molto ferrato sulla mitologica rappresentazione dei partigiani e su quella spregevole dei fascisti.

“Citizen Rosi” a Venezia 2019

Furio Colombo sostiene che Francesco Rosi sia stato un artista e al contempo un intellettuale. Etichettarlo con una delle due identità, continua, finisce per offrire una visione parziale del personaggio. Rosi preferiva definirsi un cittadino, suggestionato dal titolo scelto per una retrospettiva americana dei suoi film. Due coordinate che spiegano bene l’idea su cui si edifica Citizen Rosi, che di quella rassegna riprende il titolo stesso quasi per ampliarne il discorso sull’impegno civile di un “cittadino militante” che usava la macchina da presa per testimoniare il proprio ruolo nella società. Anima del progetto è Carolina Rosi, figlia del maestro, che, per dare il via al lavoro, rivide assieme al padre tutta la sua opera, con l’obiettivo di raccogliere appunti utili per il documentario.

“Life as a B-Movie” a Venezia 2019

Filone ormai floridissimo, quello del documentario sulle personalità del cinema italiano si distingue ora per i toni agiografici dovuti al coinvolgimento di parenti e amici ora per l’intento didattico che dimostra chi ragiona nella prospettiva di un ricordo più strutturato e durevole nel tempo. Life as a B-movie è dedicato a Piero Vivarelli, figura che ha attraversato tutto lo spettacolo, lavorato letteralmente con chiunque e tuttavia oggi relegata un po’ all’oblio. Non è solo l’intenzione di rievocarne vita e opere a rendere il doc di Fabrizio Laurenti e Niccolò Vivarelli (nipote di Piero) un film degno di massima attenzione. È proprio lo spirito incandescente che lo anima, del tutto in linea con quello di un avventuriero libertino e scatenato quale fu Vivarelli, a suo modo davvero geniale pur con le sue radicate conflittualità, a permettere il felice esito di questa operazione critica e culturale.

“Panama Papers” di Steven Soderbergh a Venezia 2019

Da quando si è rimangiato l’annunciato ritiro dalle scene, il regista americano non è solo protagonista di una fase di estrema fertilità creativa (quattro film in più o meno tre anni) ma continua a ragionare sulla macchina-cinema con la statura di un intellettuale cinefilo capace di saltare con disinvoltura e libertà da un genere all’altro per ripensarlo e studiarlo. Qui sceglie lo spirito della “commedia didattica sulla finanza” nello stile di La grande scommessa, consapevole della necessità di dover dare una forma plastica a una storia fatta di numeri con troppi zero e società offshore, materia certo più facile da maneggiare in un reportage, come quello firmato dal Pulitzer Jake Bernstein che è all’origine della sceneggiatura scritta da Scott Z. Burns. Soderbergh riesce a dare un volto al male, servendosi delle brillanti interpretazioni di Gary Oldman e Antonio Banderas, sulfurei quanto irresistibili nei panni dei cattivi che nell’ombra speculano su tutto, comprese le disgrazie.

“Maria Zef” di Vittorio Cottafavi a Venezia Classici 2019

Maria Zef rivela la sua dimensione di romanzo di formazione. Aspro come il dialetto friulano che qui suona come una musica inaccessibile. Realistico non solo per la sintonia con il corso delle stagioni ma soprattutto per la verità che trasuda il dramma umano di personaggi dimenticati da Dio. Tratto dal romanzo scritto da Paola Drigo nel 1936, Maria Zef è una delle operazioni più audaci della televisione italiana: tre puntate in una lingua incomprensibile e sottotitolata, un cast di sconosciuti presi dalla vita, una storia che non ha nulla di bucolico, per certi versi non rifiuta d’essere sgradevole e comunque si mantiene lontana dal gusto contemporaneo. Penultimo lavoro di Vittorio Cottafavi, che in sede di sceneggiatura si è fatto affiancare dal poeta friulano Siro Angeli (impegnato anche nel ruolo di Barbe). Maestro del melodramma, qui lo lascia affiorare nei colori bruni di una miseria sia sociale che umana, nelle crepe di case rotte per gli effetti devastanti della natura, nei volti affaticati di gente che la speranza non sa nemmeno se appartiene a questo mondo. Cinema rigoroso, purissimo.

“Seberg” di Benedict Andrews a Venezia 2019

Seberg usa l’emblematica vicenda dell’attrice per definire l’orizzonte politico e sociale dell’America tra i Sessanta e i Settanta: la stagione del Vietnam e di Nixon, dominata dalla cultura del sospetto. La dimensione paranoica, infatti, rappresenta l’intuizione più felice di un film che cerca di rincorrere il passo teso del thriller, riuscendo a essere piuttosto intrigante quando cavalca le ossessioni della protagonista: lo scotch sugli infissi per capire se le spie sono entrate in camera, la distruzione del telefono, la camera messa a soqquadro. Tuttavia, al netto della sentita prova di Kristen Stewart che, tuttavia, sembra percepire l’assenza di un regista all’altezza, Seberg risulta inerte, poco equilibrato nel dosare il dolente privato della star con la trama spionistica appaltata a Jack O’Connell e tutto sommato incapace di dire qualcosa di inatteso su un personaggio tanto intrigante. Peccato, perché il biopic è tra i non-generi del cinema americano che negli ultimi anni ha meglio dimostrato di poter essere non solo contenitore di una storia personale ma di un coacervo di linee narrative anche imprevedibili.

“Il sindaco del Rione Sanità” di Mario Martone a Venezia 2019

Autore che nell’ultimo decennio si è dedicato al ripensamento del nostro passato tra storia risorgimentale e rivoluzioni culturali mancate, Mario Martone torna per il secondo anno consecutivo in concorso a Venezia con un film che in apparenza si distacca radicalmente dalle sue ultime prove. In una certa misura, tuttavia, Il sindaco del Rione Sanità potrebbe anche essere letto come un’appendice a quella ricerca del tempo perduto condotta in questi anni dal regista. All’origine, infatti, c’è il testo scritto nel 1960 da Eduardo De Filippo, incardinato sul ritratto di un personaggio che ben esprime un certo orizzonte sociale legato a un altro secolo: il capo che si è fatto da solo e interviene dove la giustizia ufficiale nulla può. L’aggiornamento anagrafico dei personaggi, dovuto al legittimo desiderio performativo di un Di Leva assai calato nella parte fino ai limiti del gigionismo, forza il testo nell’ambito di un’operazione che intende contaminare il classico con l’estetica, il décor, i colori di Gomorra. Nessuno è intoccabile, se si adatta Shakespeare perché non si dovrebbe mettere mano a Eduardo? Ma – e qui sta il problema – se il racconto della criminalità nel Sindaco del 1960 trovava una sua dimensione nel mutamento della stessa camorra in quel periodo, con il tramonto dei guappi paternalisti forse legati solo alla mitologia locale, al Sindaco del 2019 – arrivato dopo molti o troppi film sul temi analoghi – si riesce a credere fino a un certo punto.