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“Bianca” doloroso e dolce

Bianca è per Moretti un film di cambiamento, di maturazione, di passaggio dalla costruzione completamente rapsodica dei primi film a una sceneggiatura maggiormente costruita e inserita nelle strutture di una sorta di ‘giallo’ morale. Ma Nanni non si normalizza e non si addomestica, anzi. Perché Bianca è anche il film in cui l’umorismo satirico del regista si carica di dolore e feroce rassegnazione, quello in cui Moretti scava di più nei lati oscuri del proprio personaggio

“Troppo azzurro” senza moralismi e assoluzioni

Piena di battute folgoranti, Troppo azzurro è una commedia misurata e non banale, ben recitata e ben scritta, con uno sguardo personale e originale, un suo ritmo (grazie anche alla musica di Pop X), dei bei personaggi, capace di dire qualcosa sul presente, sulle incertezze e sulle paure dei ventenni (e non solo sulle loro), senza moralismi o assoluzioni. Per un’opera prima, non è veramente niente male.

“Nuovo Olimpo” omaggio alle zone franche dell’amore

Dopo alcune opere meno convincenti, Özpetek recupera qui una più sincera spinta autobiografica (sempre presente nel suo cinema ma mai così palesemente denunciata, con tanto di cartello “ispirato a una storia vera”). Ha dalla sua due protagonisti (il taciturno Pietro di Andrea Di Luigi e soprattutto il vitale Enea di Damiano Gavino) bravi e intensi, un bel gruppo di comprimari e il personaggio della cassiera Titti, una dea dell’amore con le sembianze di Mina e la verve partenopea di una meravigliosa Luisa Ranieri.

“Palazzina Laf” tra vittima e carnefice

La Palazzina Laf, quella che dà il titolo al film e che Riondino e il suo co-sceneggiatore Maurizio Braucci mettono al centro della narrazione, è una sorprendente, surreale metafora. È qui che il sogno fantozziano dell’impiegato fancazzista cambia di segno e si trasforma in un incubo, un girone dantesco in cui l’inattività forzata, il demansionamento immotivato, il lento scorrere del tempo senza scopo e senza possibilità di fuga, diviene un’arma micidiale nelle mani dei padroni.

“Diabolik, chi sei?” e lo svago cinefilo

Se il ritmo non sempre regge, se la tensione a volte latita, se non mancano ingenuità e scivoloni, lo si perdona volentieri ai Manetti, prendendo in cambio il divertimento analogico d’antan, il gioco dei cameo, lo svago citazionista che regala questo fumettone bidimensionale e stilizzato. Ma d’altro canto il fascino di Diabolik, sempre uguale a se stesso, non è un po’ anche questo?

“La moglie di Tchaicovsky” e lo spazio chiuso della società

La passione assoluta si riflette nella costruzione che il regista fa dello spazio scenico: chiuso, soffocante, sena nessuna apertura all’esterno. Non ci sono panorami, paesaggi, luce, tutto è grigio, avvolto dalla nebbia e dal buio, stretto intono ai corpi e alle azioni dei protagonisti. Gli spazi si sovrappongono l’uno con l’altro, in un flusso trascinante e febbrile che impedisce quasi di respirare. Una corrente che travolge e confonde, togliendo la percezione del tempo, il senso dell’orientamento, il lume della ragione.

“Palombella rossa” sofferta e profetica

Palombella rossa è per Moretti un’opera sofferta, faticosamente scritta e realizzata, ed è anche un importante film di passaggio. Quella contenuta in Palombella rossa è, in fine, un’accorata critica alle facili semplificazioni e un bellissimo elogio alla complessità, ai “troppi pensieri che fanno bene”, purtroppo presto dimenticato. Se lo avessimo ascoltato con più attenzione allora, forse, le cose sarebbero andate diversamente. Ci aspettavamo di più dalla vita, ma la partita è andata come è andata.

“Ecco Bombo” comico e drammatico

Più volte Moretti ha detto che era convinto di aver fatto un film drammatico per pochi, per poi accorgersi dopo l’uscita del film di aver fatto un film comico per tutti. E se Ecce bombo fosse entrambi? Il film comico su un gruppo di uomini che fanno autocoscienza come le femministe (e non capiscono e non si capiscono, all’inizio come alla fine del percorso), e un film drammatico sulla realtà di quegli anni, sui rapporti deteriorati con famiglia, lavoro, società quando, dopo il Sessantotto, si era scardinato un sistema di valori.

“Il sol dell’avvenire” speciale II – La politica e l’amore

Succede quello che nel cinema di Moretti accade spesso, dai tempi di Aprile, del Caimano, del già citato Mia madre. Che la vita entra nel cinema, cambiando il film che si sta girando, boicottandone le riprese. Si intrufola sul set sotto forma degli oggetti di oggi che continuano a comparire nelle scenografie anni Cinquanta, si oppone alle intenzioni del regista facendo innamorare gli attori, mandando in galera i produttori. Trasformando un film politico in un film d’amore.

“I pionieri” e lo spettro del comunismo

Il comunismo nel film dell’esordiente Scivoletto (che adatta un suon romanzo del 2019, nato però originariamente come soggetto cinematografico) è solo uno spettro. E non uno spettro minaccioso, quello che si aggira per l’Europa foriero di rivoluzioni evocato da Marx ed Engels nell’incipit del Manifesto. Ma il fantasma inquieto di un grande ideale che è già passato e ormai non c’è più, se non nelle convinzioni di chi in quell’ideale ha creduto e per quell’ideale ha combattuto.

“Armageddon Time” famigliare e politico

Gli anni Ottanta che Gray mette in scena non hanno niente delle colorate e nostalgiche ricostruzioni pop che popolano tanti piccoli e grandi schermi degli ultimi anni: i sobborghi della Grande Mela dove si muove il protagonista sono spenti, le case anguste, le scuole pubbliche fatiscenti e abbandonate dai finanziamenti statali, le metro una replica meno metafisica e assai più concreta di quelle dei Guerrieri della notte. Ovunque si avverte una tensione sociale e razziale  figlia di quegli anni difficili (seppur cotonati e avvolti dalla disco music) a un passo dall’elezione a presidente di Ronald Reagan, che non avrebbe certo migliorato le cose.

“Disco Boy” sans-papiers nell’universo dei corpi

Alla fine è tutta una questione di corpi Disco Boy, l’esordio nel lungometraggio di finzione di Giacomo Abbruzzese, premiato per la fotografia di Hélène Louvart all’ultimo festival di Berlino. Contributo fondamentale vista la natura del film, che fa della dimensione visiva il mezzo per raggiungere una stilizzazione che trasformi il particolare in universale, la storia personale in storia collettiva. Corpi, dunque. Senza patria, senza un posto nel mondo, come quello del protagonista.

“L’innocente” leggero e preciso a spasso tra i generi

Con L’innocente Louis Garrel realizza così il suo film più maturo e il meglio costruito, il più sorprendente e autenticamente divertente, dimostrandosi capace di portare avanti la narrazione con una leggerezza e una precisione che diviene stile, maneggiando i generi con sapienza e tenendo sempre vivo l’interesse per il destino dei personaggi (tutti perfettamente disegnati e altrettanto ben recitati da un cast molto affiatato).

“The Fabelmans” Speciale III – Dove vince la leggenda

Il cinema dimostra qui la sua duplice natura. Da una parte svela quello che l’occhio umano non vede, che la mente relega ai sogni che non si vogliono interpretare (d’altronde, come dice il piccolo Sammy quando per convincerlo a entrare in sala gli viene detto che il cinema è un sogno, “i sogni fanno paura”). E dall’altra crea una realtà alternativa, dove tutto va come deve andare, dove si possono tagliare al montaggio le parti scomode e sbagliate, gettandole nel cestino. Tra verità e leggenda, nel cinema, vince la leggenda. Nel cinema di Spielberg sicuramente, e per noi va benissimo così.

“The Lost King” e gli sconfitti vincitori

Con la protagonista di The Lost King, interpretata da una sempre bravissima Sally Hawkins, Frears aggiunge un altro ritratto alla sua galleria di sconfitti vincitori, di donne piccole piccole che nel perseguire un obiettivo, nell’inseguire la verità e difendere i propri principi, salvano se stesse e si fanno gigantesche, come era successo a Judi Dench in Philomena e a Meryl Streep in Florence (e in modo non troppo dissimile anche alla Queen di Helen Mirren). La costruzione è quella di un thriller, di un giallo con alla base un’indagine folle e un po’ insensata, ma forse proprio per questo così incredibilmente coinvolgente.

Ritratto cinefilo di James Ivory

James Ivory, dopo il successo degli anni Novanta, è ingiustamente diventato un sinonimo di stile laccato, di riduzioni inamidate di classici della letteratura, di raggelata freddezza decorativa. L’Oscar vinto a novantaquattro anni per la sceneggiatura tratta dal romanza di Aciman, l’omaggio e il premio che gli è stato attribuito alla Festa del cinema di Roma e il suo nuovo (bellissimo) documentario, A Cooler Climate, ci permettono di compiere una ricognizione nella vita e nella carriera del più inglese dei registi americani, come ha detto qualcuno. 

“Belfast” e le spinte autobiografiche di Kenneth Branagh

Da tempo Kenneth Branagh si divide su due fronti, da una parte le mega-produzioni dai budget stratosferici, dall’altra i piccoli film, quelli più sinceri e personali, che meno risentono del gigantismo e delle grandi aspirazioni. Belfast si colloca in quest’ultima, felice, categoria, sorretto dalle spinte autobiografiche e da una sincerità che da tempo non faceva capolino nei suoi lavori. Per ritrovare la stessa urgenza di raccontare bisogna andare indietro nel tempo, all’esordio shakespeariano di Enrico V, a Nel bel mezzo del gelido inverno (anche questo, come Belfast, in bianco e nero, e sua vera dichiarazione d’amore per il Bardo, con buona pace di tanti robusti adattamenti) o al misconosciuto Gli amici di Peter. 

“Gli occhi di Tammy Faye” alla fiera del camp

Al centro del film c’è Tammy Faye, interpretata con mimesi fisica e vocale da una splendida  Jessica Chastain che riesce a rendere credibile una donna dalle molte contraddizioni, determinata ma schiacciata dal ruolo di “moglie”, spinta da un fervore e da un’incoscienza non del tutto innocente (quando non evidentemente colpevole) che la rende insieme vittima, complice e connivente. A riscattarla è soprattutto il suo cercare di essere autenticamente accogliente e comprensiva, la sua volontà di amare il prossimo così com’è, nel tentativo di trovare, toccare ed essere toccati, e  infine salvati da un Dio invocato a gran voce.

Speciale “Petite Maman” – Una fiaba concreta e quotidiana

Basterebbe l’inizio a esemplificare la precisione chirurgica della mise en scène: una bambina fa il giro di una casa di riposo salutando le anziane ospiti, fino a raggiungere la mamma in una stanza ormai vuota. Un saluto non dato, un commiato difficile e mancato, che apre a dubbi, domande, rimpianti. Dopo la morte della nonna la piccola Nelly accompagnerà la madre nella casa della sua infanzia e nel bosco che la circonda incontrerà una misteriosa bambina che diventerà sua amica. Dire di più sarebbe un vero peccato, sia perché ci sembrerebbe di rovinare tanta mirabile semplicità con parole inutili. 

“La crociata” alla Festa del cinema di Roma 2021

Come Petite manan di Céline Sciamma quello di Garrel è un altro piccolo film francese sull’infanzia e la sua grande forza, contrapposta alle debolezze e all’incapacità degli adulti. Per il regista della Croisade i “grandi” sono inutili e spesso dannosi, e solo i più piccoli sanno ancora sognare e sono pronti ad agire affinché le cose possano davvero cambiare, quando invece gli adulti sembrano aver perso completamente la capacità di farlo. A essere irrimediabilmente compromessa è soprattutto la loro credibilità, cancellata dalle tante, troppe, false promesse che i figli non vogliono più stare ad ascoltare.