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“Downton Abbey” e lo spirito della nazione

La sceneggiatura di Fellowes è la vera colonna portante di serie e film, e dimostra tutta l’abilità dell’autore (evidente fin dai tempi dell’atmaniano Gosford Park, primo tassello della sua riflessione sul rapporto tra la servitù e i loro signori) nel gestire i racconti corali, lasciando a tutti i personaggi il giusto spazio e la possibilità di sviluppare la propria storia personale. Al cast storico si aggiunge Imelda Stanton, protagonista di alcuni imperdibili scambi al vetriolo con una grande Maggie Smith, a cui sono riservate le battute più sagaci. Schegge di umorismo british che sono l’acqua alla vita di un film capace sia di soddisfare i fan che di coinvolgere i neofiti, pur perdendo qualcosa della complessità e della capacità di analisi sociale a cui ci aveva abituato la serie TV.

“Scary Stories to Tell in the Dark” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Come nell’It kinghiano, sono le colpe del passato, l’avidità, la discriminazione, l’odio (nutrito dalle parole, dalle bugie raccontate e dalle verità tacitate) a creare il mostro che aleggia sulla città. E, come spesso accade nel cinema di Del Toro, è stretto il connubio tra Storia e storia, tra realtà del tempo (e del nostro tempo) e paure, non solo soprannaturali. L’anno è il 1968, sugli schermi delle vecchie TV in bianco e nero passano ripetutamente le immagini della campagna presidenziale di Richard “Tricky Dick” Nixon (che nome perfetto per un mostro da teen horror!) e il fantasma feroce e sanguinario della guerra del Vietnam spaventa più di qualsiasi casa stregata. Una scary story terribilmente reale, pronta a catapultarti in un mondo da incubo da cui è difficile tornare indietro.

“Motherless Brooklyn” alla Festa del Cinema di Roma 2019

Il progetto di trasformare in un film il romanzo di Jonathan Lethem, Norton lo inseguiva da due decenni, arrivando dopo molti ripensamenti a scriverne la sceneggiatura, interpretarlo e curarne la regia. I debiti verso il cinema classico sono evidenti e per niente nascosti, tanto che l’azione è spostata dagli anni ’90 dei lupi di Wall Street all’America prosperosa e apparentemente felicissima del secondo dopoguerra. Un’inversione rispetto i topoi del genere Norton la cerca nelle dinamiche dei personaggi, con un detective malato tutt’altro che hard boiled e una femme per niente fatale, salvifica invece che tentatrice. La riflessione, attualissima, sul potere e sull’emarginazione, sul nuovo e perfetto che vuole sostituire il vecchio e l’imperfetto, si perde però in un diluvio di parole, nel tentativo di spiegare una storia che rimane comunque oscura e macchinosa. 

“Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi)” alla Festa del Cinema di Roma 2018

C’erano una volta, nella buona vecchia Inghilterra non ancora toccata da Beatles e minigonne, le indimenticabili commedie Ealing. Piccoli gioielli di humour nero e cinico che, da Sangue blu a La signora omicidi, hanno saputo mostrare quanto potevano essere pericolose le buone maniere, le aspirazioni, i vezzi del popolo di Sua Maestà. Da allora in molti hanno tentato di eguagliarne la formula perfetta, di ritrovare lo steso equilibrio tra eleganza e cattiveria, tra orrore e quotidiana tranquillità, senza mai riuscire nell’intento. Ci prova anche l’esordiente Tom Edmunds, regista esordiente e sceneggiatore di Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi), presentato in anteprima italiana alla Festa del cinema di Roma. Il risultato è un’irriverente black comedy sulla banalità della morte e l’eccezionalità della vita.

L’autenticità in discussione di “Notti magiche”

Virzì, con il supporto alla scrittura di Francesco Piccolo e Francesca Archibugi, realizza un progetto che aveva in mente da tempo: raccontare quel momento della storia del cinema di casa nostra a cavallo tra il vecchio e il nuovo, fotografando la fine dell’universo dorato dei grandi produttori, dei grandi registi, ma soprattutto dei grandi sceneggiatori. Un branco di leoni “vecchi, stanchi e che non c’hanno voglia di fare un cazzo”, pronti a catturare e spremere fino al midollo i loro giovani “negri”. Tra tante apparizioni e camei, Herlitzka fa l’intellettuale neorealista, Bonacelli il verso a De Concini, Andrea Roncato (il più misurato nel tratteggiare il suo personaggio) un regista contestatore sprofondato nell’indigenza. Peccato che siano tutti siparietti che non riescono ad acquistare quasi mai un vero spessore, una sfilata di figurine bozzettistiche che non graffiano, non criticano, non condannano ma nemmeno assolvono.

La precaria adolescenza di “Zen sul ghiaccio sottile”

La regista Margherita Ferri trova per il suo film d’esordio un tono peculiare, difficile da riscontare nel cinema italiano. Ambientando la vicenda tra le nevi dell’Appennino emiliano, e mettendo in scena uno sport insolito – almeno per la nostra penisola – come l’hockey su ghiaccio, riesce a dare respiro e universalità alla storia. I modelli della giovane regista, che il film l’ha anche scritto, sembrerebbero quelli del cinema indipendente americano: la storia di Zen potrebbe tranquillamente essere ambientata nel Wyoming o in Canada, e presenta non pochi punti di contatto con gli altri film presentati a Roma, da Boy Erased a La diseducazione di Cameron Post, che cercano di raccontare la sofferta scoperta, e l’altrettanto difficile difesa, della propria identità sessuale. 

“Stanlio & Ollio”. Guardando dietro la maschera

A fare la differenza in questo Stanlio & Ollio, più che la regia pur corretta ed equilibrata di Jon S. Baird, è l’incredibile performance dei due attori protagonisti: Steve Coogan e John C. Reilly producono un miracolo di abilità recitativa, riuscendo in un’impresa che sembrava impossibile. Non si limitano ad imitare Laurel e Hardy ma vanno più affondo, trovando un equilibrio perfetto tra aderenza fisica e introspezione psicologica. Divertenti fino alle lacrime, Coogan e Reilly sfoggiano una chimica perfetta e ricreano in scena i tempi comici che hanno reso immortali le gag del duo. Non sono da meno nell’affrontare il privato dei loro personaggi, portando qualcosa delle maschere di Stanlio e Ollio nella vita quotidiana di Stan e Oliver, fondendo personaggi immaginari e persone reali in maniera inscindibile.

“Fahrenheit 11/9”: chi ha paura di Donald Trump?

Basta spostare i due numeri 9 e 11, e quell’11 settembre che fa da sanguinoso spartiacque nella storia contemporanea si trasforma nel 9 novembre, il giorno in cui Donald Trump è diventato, contro qualsiasi previsione, il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Come in una cabala da brivido, questi numeri che si ripetono diventano il sinistro presagio di un nuovo, terribile, pericolosissimo attentato alla democrazia. È da qui che parte Fahrenheit 11/9, nuovo documentario di Michael Moore presentato alla Festa del Cinema di Roma, dove il sarcastico campione del pensiero liberal USA ha partecipato anche a un incontro ravvicinato con il pubblico. Il grido d’allarme arriva forte e chiaro, ricordando agli americani (e non solo a loro) che la democrazia non è qualcosa di assodato ma un obiettivo da raggiungere e un privilegio da difendere.

“Old Man & the Gun”: l’addio al cinema del ribelle Redford

Annunciato come l’ultimo film di Robert Redford, The Old Man & the Gun regala a questa icona del cinema made in USA l’occasione per un addio alle scene tutt’altro che scontato. Attraverso il personaggio realmente esistito di Tucker, l’old boy Redford sembra voler rivendicare le proprie scelte e il proprio passato, in primo luogo cinematografico, di libero contestatore e combattente. Una lotta affrontata con quel sorriso mai invecchiato da bravo ragazzo a stelle e strisce, un’atleta biondo e rassicurante arrivato fuori tempo massimo nell’America che aveva già smesso di credere nel mito wasp che il giovane Robert si trovava stampato sul volto. È così che da Corvo rosso non avrai il mio scalpo a La stangata, da Tutti gli uomini del presidente a I tre giorni del Condor fino al dolente Il cavaliere elettrico, i suoi personaggi hanno incarnato come pochi altri la capacità del singolo di opporsi a regole e costrizioni dettate dall’alto.

“Il vizio della speranza” e l’evidenza delle parabole

Con il suo nuovo film Il vizio della speranza, scritto insieme a Umberto Contarello e presentato in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma, il regista di Indivisibili Edoardo De Angelis torna a raccontare le zone d’ombra di una Campania povera e dimenticata, andando alla ricerca di un ultimo tizzone ardente di luce in un fuocherello di umanità che sembra assuefatta alla disperazione. La nascita, evento comune e straordinario, diviene la scintilla creatrice di in una famiglia affettiva fatte di “brave persone”, in cui non conta tanto il legame di sangue quanto l’aver mantenuto una purezza di fondo, faticosamente difesa in un mondo dove per disperazione si può vendere tutto, anche la propria vita. Una natività da presepe contemporaneo, a cui dà forza la colonna sonora di Enzo Avitabile. 

“Halloween” e la seconda volta di Laurie

Presentato alla Festa del Cinema di Roma, Halloween è un gioco cinefilo di specchi, che funziona solo per chi il film precedente lo conosce a memoria. Jamie Lee Curtis si presta a questo cortocircuito con meta-cinematografica autoironia, lei che come la sua Laurie di quella notte di Halloween di quarant’anni prima fa non è mai riuscita a liberarsi davvero, “relegata” più o meno controvoglia ad eterna reginetta dell’horror. Lo scopo dell’ennesimo ritorno di Michael sembrerebbe proprio questo: dare a Jamie Lee/Laurie l’occasione a lungo attesa per avere una rivincita, per liberarsi di questo scomodo fantasma del passato prendendo, almeno per una volta, il coltello dalla parte del manico. Sembrerebbero esserci riuscite, finalmente in maniera definitiva. Ma visti i precedenti, chi può dirlo con certezza?

Cinema Ritrovato 2017: “Effetto notte”

“Sei un bugiardo” scrive Jean-Luc Godard a François Truffaut dopo aver visto Effetto notte (1973). Per l’autore de I 400 colpi è il film della sintesi, un tirare le somme sul suo lavoro di cineasta capace di diventare una dichiarazione di poetica. La pellicola si trasforma suo malgrado nel fattore scatenate della rottura definitiva tra i registi che erano stati la scintilla propulsiva della Nouvelle Vague. Una separazione netta tra due sensibilità sempre più distanti, tra due modi di vedere il cinema e la vita dopo il ’68.

Cinema Ritrovato 2017: Sherlock Holmes, nostro contemporaneo

“Elementare, Watson!”. Pare che sia stato Clive Brooke il primo attore a declamare sul grande schermo, in The Return of Sherlock Holmes (1929), la celebre esclamazione, apocrifo holmesiano mai pronunciato dal detective nei cinquantanove racconti e quattro romanzi che compongono il “canone” delle avventure del celebre “consulente investigativo”.

Cinema Ritrovato 2017: “The Road Back”

Quello che colpisce fin da subito in The Road Back, film diretto da James Whale nel 1937, è che la fine della guerra non ha niente di liberatorio; al contrario è completamente spaesante. Non ci sono grida di giubilo, come non ci sarà nessuno a festeggiare i ragazzi che tornano dal fronte della Grande Guerra. Incompresi ed emarginati dallo stesso paese che li aveva spinti in battaglia parlando di patria e di onore, questi soldati che non riescono a tornare uomini scopriranno presto che la “via del ritorno” non è facile da percorrere.

Cinema Ritrovato 2017: “Johnny Guitar”

Comincia con una richiesta di ringraziamento e di indulgenza per Joan Crawford la proiezione in Piazza Maggiore della versione restaurata di Johnny Guitar. Ringraziamenti, perché fu la più odiata diva di Hollywood ad acquistare i diritti del libro di Roy Chanslor e a proporlo a Nicholas Ray. Indulgenza, perché lavorare con l’attrice fu un vero inferno: il regista disse che “come essere umano, Joan Crawford era una brava attrice”, e il protagonista maschile Sterling Hayden che “non ci sono abbastanza soldi a Hollywood per convincermi a girare ancora un film con Joan Crawford”.