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Wilder e Freud tra commedia e psicanalisi
Billy Wilder è uno dei tanti registi che, pur non essendo mai andato in analisi, ha sintetizzato in pochi e significativi tratti caricaturali l’altera figura dello psicoanalista, una trasposizione cinematografica macchiettistica che risente certamente delle proprie origini austriache, alle quali si aggiunge forse un antico risentimento mai del tutto sopito. Wilder nel 1925, è un giovane giornalista che scrive per “Die Stunde”, in occasione dell’edizione natalizia realizza un’inchiesta su Mussolini e il fascismo, intervistando diverse personalità di Vienna (Alfred Adler, Arthur Schnitzler e Richard Strauss) non restie a concedergli un incontro, mentre Sigmund Freud, che non ama i giornalisti, lo mette alla porta. Più volte gli è stato chiesto di rammentare nei minimi dettagli questa esperienza poco fruttuosa e lui, senza infarcire un racconto di per sé piuttosto scarno, ha sintetizzato quell’evento riportando la frase con cui lo psicoanalista lo ha freddamente congedato: “Quella è la porta!”.
“La ragazza in vetrina” e la censura. Aspettando il Cinema Ritrovato
Oltre ai brutali tagli della censura che hanno alterato la trama de La ragazza in vetrina, come quel “no kiss” pronunciato dalla prostituta ed eliminato snaturando il significato del finale del film, il direttore dello spettacolo presso il ministero propone a Emmer venti milioni (di allora) per rigirare una scena: “Suggeriva di lasciare apparire Marina Vlady completamente nuda e forse di mostrare l’amplesso al posto della castissima scena da me girata. A condizione che dopo l’amplesso lei scorgesse su un giornale la fotografia del giovane minatore, con la notizia che era rimasto sepolto nella miniera per tre giorni resistendo alla disperazione (…) la ragazza allora doveva mettersi a piangere, dicendo ad alta voce ‘Tu sei stato un eroe io sono una miserabile prostituta’. Per la chiesa cattolica il peccato della carne è il più venale – quello che conta e non si può infrangere è l’ipocrita moralismo”.
“L’isola dei cani” e la filosofia dell’animale
Plutarco, nel trattato Del mangiare carne, aveva riconosciuto le virtù degli animali contrapponendole alla natura viziosa dell’uomo, attaccandone l’antropocentrismo, visione egoistica che priva gli altri esseri viventi della propria soggettività considerandoli incapaci di apprendere e di modificare il proprio comportamento in base all’esperienza. Secondo Democrito, invece, il debito dell’uomo nei confronti del mondo animale è immenso, dal ragno avrebbe imparato a tessere, dalla rondine l’architettura, dal cigno e dall’usignolo il canto, per non parlare delle abilità chirurgiche degli elefanti che estraggono le armi conficcate nel corpo dei compagni feriti. Nel film di Wes Anderson troviamo tutto questo, l’animale giocattolo, il pet, che la stop motion trasforma in un puppets restituendogli il soffio vitale e la dignità tanto agognata.
Angelo Novi e l’inconscio fotografico dei film
Novi è uno dei tanti protagonisti che ha reso possibile, immortalandolo nel suo originalissimo fotoromanzo, “l’edificazione del Grande Sogno Collettivo” del Cinema, svelandone la realtà fatta di “tecnici, macchinisti, elettricisti, sarte e carpentieri”, e ovviamente attori, tutti sotto la direzione del regista; professioni differenti che trovano nella comune artigianalità del mestiere affinità con “i muratori, i marmisti e i manovali, che nel Medioevo costruivano le Cattedrali”. Lui che “è l’unico altro ‘autore’ presente sul set, oltre al regista, nel senso che è l’unica altra figura della troupe a godere di una autonomia e di una sovranità creativa illimitate” (Giuseppe Bertolucci).
Antonioni a Marienbad
L’etichetta di cinema dell’incomunicabilità, dell’alienazione “quella che va de moda oggi”, commentava con sarcasmo Vittorio Gassman nel film Il sorpasso (1962) a proposito della visione de L’eclisse, risulta essere una definizione superficiale e usurata dal tempo e viene duramente contestata da Robbe-Grillet che riconosce in questi film un “cinema dell’evidenza svelata”, in cui la comunicazione è “appassionata, passionale, infinitamente più concreta di tutti i dialoghi triti e verbosi che ingombrano i nostri schermi. Sulle rovine di questa pretesa comunicazione attraverso la parola, sotto i nostri occhi distratti si va costruendo uno scambio più intenso, più segreto, meno razionale e, al contempo, meno vano. A volte, quando si fissa un punto (un oggetto, una persona), si diventa il punto in questione; e ciò che conta, è il movimento di passaggio verso l’altro”.
Michelangelo Antonioni e i colori dei sentimenti
Analizzando l’opera pittorica di Michelangelo Antonioni, una ricerca costante svolta in parallelo all’attività di regista e ad essa molto più vicina di quanto si immagini, non possiamo non soffermarci sulle Montagne incantate, acquerelli e collage di dimensioni ridotte, pochi centimetri, in certi casi millimetri, ai quali il regista affianca gli ingrandimenti fotografici, dei veri e propri blow up, di alcuni particolari indagando lo spazio della composizione, i pieni e i vuoti, le peculiarità dei pigmenti del colore e della grana della carta. “Che colore hanno i nostri sentimenti?”, sembra chiedersi Antonioni, ma soprattutto, quanto il colore li influenza? Nell’intervista rilasciata nel 1964 a Jean-Luc Godard, a proposito di Il deserto rosso, il regista parla di psicofisiologia del colore, portando come esempio un curioso aneddoto: l’interno della fabbrica durante le riprese è stato dipinto di rosso e questo ha provocato delle liti tra gli operai, presto placate da una mano di verde chiaro.
Straniamento e commozione: “Visages, Villages”
Visages, Villages fin dal titolo mette in chiaro l’intento del documentario, un road movie nei villaggi e nelle periferie della Francia attraverso gli sguardi degli abitanti del passato e del presente. Come già era accaduto con Megunica (Lorenzo Fonda, 2008), viaggio in America Latina dello street artist Blu, JR documenta la sua ricerca creativa itinerante, caratteristica intrinseca di un’arte nomade, che, nonostante la mercificazione museale degli ultimi anni, resta fedele ai propri principi dettati dalla durata effimera delle opere, dal legame imprescindibile con la storia e l’aspetto dei luoghi nei quali prende forma, mostrato con scrupolosa attenzione e sensibilità.
“L’uomo con la lanterna” a Visioni Italiane 2018
“Il sogno è il primo genere letterario dell’umanità. Nel sogno siamo registi, attori e spettatori delle vite immaginarie che ci sono state narrate e di quelle che andiamo a comporre”, questo è l’incipit con cui si apre L’uomo con la lanterna di Francesca Lixi, vincitore del Premio Corso Salani al Trieste Film Festival 2018, una frase del filosofo Remo Bodei che vuole chiarirci con quale sguardo la regista abbia provato a dare forma alla vita di suo zio Mario Garau, bancario cagliaritano che dal 1924 al 1935 si ritrova a lavorare per l’Italian Bank for China a Tientsin e Shanghai.
L’amour fou tra Jean Vigo e André Breton
L’Atalante diviene l’esaltazione della forza sovversiva de l’amour fou, l’amore totale e travolgente messo a dura prova dagli ostacoli esterni, la ripetitività della vita quotidiana e la pressione delle convenzioni sociali, tutte circostanze totalmente estranee all’amore. Il sogno profetico di Jean è un cortocircuito acquatico tra realtà e mondo onirico, ed è curioso trovare tra le illustrazioni presenti ne L’amour fou (1937) di Breton una fotografia che ritrae la sua futura moglie, anch’essa artista, Jacqueline Lamba, mentre nuota sott’acqua, in uno scatto realizzato dalla fotografa ungherese Rogi André.
La stella e il found footage di Johann Lurf
Quasi impossibile da citare, visto che il simbolo della stella dà il titolo al film, l’ultimo lavoro di Johann Lurf, presentato a Bologna in occasione di Art City, colpisce in profondità. Il giovane filmmaker austriaco si serve di un simbolo evocativo, che forse ad alcuni avrà subito richiamato alla memoria un’altra stella comparsa nel 2016 sulla copertina dell’ultimo album di David Bowie e, come questo starman per definizione, ci invita ad affrontare la sua personalissima space oddity attraverso un found footage, altamente cinefilo, montando una serie infinita di sequenze cinematografiche nelle quali compaiono delle rappresentazioni della volta celeste.
I gatti di Jean Vigo
I gatti che affollano la chiatta de L’Atalante di Jean Vigo, difficilmente passano inosservati, potrebbero rientrare nella categoria dei “gatti da granaio” coniata da William Burroughs per definire quei “gatti sfamati sommariamente con latte scremato e avanzi”, costretti a conservare un appetito costante placato solo dalla caccia a qualche ratto distratto. Il gatto da granaio desidera ardentemente, spiega Burroughs nel suo Il gatto in noi (1986), “conquistarsi un protettore umano”, privilegio che lo rende a tutti gli effetti un gatto di casa.
“La lingua dei miracoli” ad Art City 2018
Non sapremo mai quanto centri lo zampino della divina provvidenza nell’opera di Maurizio Finotto, artista e regista originario di Cavarzere, provincia di Venezia, luogo in cui sembrano avere avuto inizio le prime apparizioni divine, un po’ per scherzo, un po’ per autocompiacimento. Sono circa 200 le tavolette votive realizzate tra il 2015 e il 2017, Finotto fa proprio quel linguaggio mistico e atemporale tipico degli ex voto attraverso il quale illustra i momenti salienti della sua esistenza, tutti accomunati dal verificarsi di un miracolo o di una grazia, accertate o presunte che siano, non sta a noi stabilirne l’autenticità, ma crederci aiuta ad entrare in questa dimensione taumaturgica in cui l’ironia e la devozione popolare trovano un perfetto equilibrio.
La miseria aguzza il talento. I documentari di Luciano Emmer
“Non ho mai fatto dei documentari. Stranamente, i miei non sono documentari: Giotto, Bosch, i miei film sull’arte sono dei film. Sono dei racconti. Forse gli unici documentari che ho fatto nella mia vita sono dei film lungometraggio. Domenica d’agosto si può dire che è un documentario sui romani che andavano al mare, alla spiaggia in agosto (…) Camilla è un documentario sulla crisi della famiglia, realizzato quarant’anni prima che ciò avvenisse, come adesso. La ragazza in vetrina è un documentario sui minatori immigrati, non clandestini in Belgio, nelle miniere, perché i belgi non ci andavano. Ci andavano gli italiani, che erano miserabili”.
Galleria senza fine, la Bologna fotografata (ancora)
La mostra Bologna Fotografata è stata prorogata fino al 5 febbraio, un’ultima occasione, per chi non avesse ancora visitato le sale del sottopasso di Piazza Re Enzo, in cui poter scoprire, o riscoprire, la storia di questa città. Quel che resta della Bologna che fu, ciò che è sopravvissuto ai tre secoli di sguardi divenendo un simbolo tangibile della città, ancor più delle Due Torri (quasi due superstiti), sono i portici, quel “salotto lungo la strada”, che Renzo Renzi celebra indagandone le origini e l’evoluzione nel suo Guida per camminare all’ombra (1954), una “pesante galleria senza fine” che sfocia nelle piazze ritrovando “il necessario respiro verso il cielo, la rivolta aperta all’eccesso di intimità”.
John Belushi, ritratto di corpo ingombrante
Tocca a un altro Saturday Night (Live) ad attirare l’attenzione, divenendo il collegamento ideale tra il corpo atletico e danzante di John Travolta e la parodia che ne fa John Belushi, samurai ballerino, altrettanto agile e scattante, che brandendo la catana si esibisce in una memorabile performance, un’ironica e travolgente Samurai Night Fever. La figura di John Belushi è riassunta perfettamente in questo sketch televisivo preannunciando la forza della comicità demenziale dei personaggi che solo in un secondo momento porterà sul grande schermo, ruoli che trovano le proprie origini in un percorso che alterna spettacoli teatrali, programmi radiofonici e televisivi.
Cercare il nome della realtà. Gianni Toti.
Il festival MetaCinema svoltosi all’Accademia di Belle Arti di Bologna è stata l’occasione ideale per mostrare la collaborazione tra Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia (l’evento rientra nel programma della X edizione di Archivio Aperto) e La Casa Totiana; in particolare l’incontro è servito a rispolverare una storia, quella di Gianni Toti, partigiano coSmunista, come lui stesso si definiva, giornalista, poeta, regista cinematografico, scrittore etc…poco noto in Italia nonostante i numerosi riconoscimenti ottenuti soprattutto all’estero.
“Un western senza cavalli” ad Archivio Aperto 2017
Mingardi è un filmaker a tutti gli effetti, e il termine cineamatore, come lui stesso afferma, lo priva della dignità e della creatività artistica di cui ha dato prova in tanti anni di attività. Tutte le pellicole e i lavori di Mingardi, ora conservati presso Home Movies Archivio Nazionale del film di Famiglia, sono stati esaminati dai registi che supportati dalle interviste dei protagonisti di quella fortunata esperienza hanno ricostruito un percorso artistico fatto con pochi mezzi ma, e questa è forse la caratteristica più rilevante, portato avanti con tanta passione mostrandoci un amore incondizionato per il cinema e, potremo aggiungere, per la sua città, Bologna, in cui ambienta tutte le storie.
I Cineguf e il cinema sperimentale italiano ad Archivio Aperto 2017
Parliamo ancora di Archivio Aperto (rassegna organizzata da Home Movies che proseguirà fino al 2 dicembre) soffermandoci sull’incontro dedicato ai Cineguf, curato da Andrea Mariani (Università di Udine). Opere poco conosciute conservate all’interno delle cineteche e spesso ignorate dalla cultura istituzionale, alcune di queste pellicole sono state digitalizzate grazie al lavoro de La Camera Ottica di Gorizia; due di esse invece provengono dal Fondo F.lli Chierici e dopo il recupero di Home Movies sono entrate a far parte dell’Archivio Nazionale del Film di Famiglia.
Cinebox e Scopitone ad Archivio Aperto 2017
Le proiezioni organizzate da Home Movies (Archivio Nazionale del Film di Famiglia), in occasione della decima edizione di Archivio Aperto, hanno avuto inizio la scorsa settimana e proseguiranno fino al 2 dicembre, la rassegna ancora una volta spazia dal cinema sperimentale ai filmati di famiglia, mettendo in luce l’attività di ricerca e restauro di un archivio unico nel suo genere.
Di Nico, Warhol, Garrel e altre storie
Approfittare di questi giorni per scrivere di Nico è utile sia per evidenziare la presenza nelle sale del film Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli (un biopic a metà strada tra Io non sono qui di Todd Haynes e Last Days di Gus Van Sant) che per riscoprire, o scoprire ex novo, alcuni passaggi della biografia di questo personaggio, fotomodella, attrice e musicista. Trine Dyrholm si cala nel personaggio restituendoci un febbrile ritratto che non pretende di essere la fedele e inarrivabile filologia di un’esistenza, ma, un’intensa interpretazione rievocativa.