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“Il potere del cane” e la riscrittura del western
In Il potere del cane, proprio in quanto western, i protagonisti sono maschili, i corpi sovrastati dalla natura, inondati dai suoi orizzonti, i paesaggi allo stesso tempo inquadrati e incorniciati da finestre o porte aperte che siano. Paesaggi addomesticati dall’uomo che il sentimentalismo cerca di soffocare e il romanticismo di dimenticare. Partendo dall’omonimo romanzo del 1967 di Thomas Savage – costruito in gran parte come una serie di ritratti e di personalità complesse sviscerate, decomposte e ricomposte, messe insieme a scontrarsi l’una con l’altra – Campion decide di mantenere questa impostazione: fare un “film di personaggi”, svelati di capitolo in capitolo, facendo così un “film di attori” con un cast di rilevanza.
“Me and My Brother” e il cinema d’istinto di Robert Frank
Per gran parte del film, Robert Frank restituisce testimonianze e filmati della bohéme newyorkese degli anni Cinquanta e Sessanta, viaggi, poesie, riflessioni e diagnosi mediche. Il duo, che poi è un trio con Allen Ginsberg, si fa binomio bipolare di visioni sul mondo che, per quanto opposte, si incontrano in un incredibile numero di elementi in comune. Due allontanamenti, consapevoli e non, dalla normalità e da pre-codificati modelli sociali. Julius guarda le cose in modo particolare “lancia un’occhiata e ci gira attorno”, dice Robert Frank, e per quanto possa sembrare impossibile, il suo punto di vista traspare come il più puro ed efficacie degli allontanamenti.
Lotta di classe, lotta di generazione. Il cinema di Yuzo Kawashima
Da una parte la lotta di classe che, alla fine dei conti, è lotta “nella classe”, mentre dall’altra una “lotta di generazione”. Se Elegant Beast era una più estesa critica alla società postbellica giapponese tramite la quale il regista guardava con ironia le nuove famiglie piegate da modernità e materialismo, dall’altra invece Temple of the Wild Geese è un grido di sconforto nei confronti dei sistemi di potere tra generazioni, delle ordinazioni buddiste (da lui stesso frequentate e abbandonate per protesta contro quella che lui riteneva la corruzione del monaco capo), di un Giappone che nasconde le proprie incoerenze dietro la maschera della tradizione, che sia essa la pittura del “tempio delle oche selvatiche” (come recita il titolo internazionale, riferimento a un elemento simbolici centrale per il film), la formazione politico/militare o la dimensione religiosa.
“Dramma della gelosia” e tutti i particolari della commedia
Siamo appena agli inizi della carriera di Ettore Scola (Se permette parliamo di donne, il suo esordio, è uscito solo sei anni prima, nel 1964), ma già alcuni elementi che saranno ricorrenti nella sua filmografia successiva, acquistano qui una valenza che difficilmente riesce ad essere raggiunta successivamente. Il ménage à trois, per esempio, quello che poi sembra venire accennato anche in altri futuri film come C’eravamo tanto amati o Splendor, è con buona probabilità il più intenso e sfacciato della sua filmografia, tanto da venire definito ne Il Mereghetti come una “risposta proletaria al truffautiano Jules et Jim”; anche Roma è probabilmente una delle più disordinate della sua carriera, “la città più sporca d’Europa” dice il personaggio di Mastroianni, quasi più di Brutti, sporchi e cattivi.
Il fiume del tempo. “Il mulino del Po” e il cinema della natura
Alberto Lattuada con Il mulino del Po non tradisce quell’interesse originario incentrato sulla ricerca di un punto di incontro tra il desiderio di un’autonomia espressiva del cinema (attraverso il primato dell’apparato estetico) e, allo stesso tempo, un continuo dialogo con altre forme d’arte, in particolare la letteratura. Adatta così Mondo vecchio sempre nuovo, la terza e ultima parte di Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli; fonde l’affresco storico e sociale al melodramma, ribadendo il suo sogno di un matrimonio tra cinema e letteratura (la sceneggiatura, tra gli altri, è anche di Fellini e Comencini), guardando in continuazione anche al neorealismo.
La pandemia, fuori. “Sesso sfortunato o follie porno” come ritratto della nazione
Sembra banale e scontato dire che Sesso sfortunato o follie porno, ultimo film diretto da Radu Jude e vincitore dell’Orso d’oro all’ultima Berlinale, restituisca lo spirito del tempo di questi anni, tuttavia è quasi impossibile dire il contrario. Mentre ormai sono mesi che stiamo aspettando di vedere dei film che sembrano non uscire mai, messi “nel congelatore” in attesa di un periodo indefinito futuro, nel quale potranno viaggiare liberi, un regista come Jude sembra non avere nessuna intenzione di aspettare, in velocità reagisce alla contemporaneità su tutta la linea. Ne viene fuori, ancora, il ritratto di una nazione, della sua storia e delle sue colpe, tra ipocrisie e ironie: due cose che per il regista sembrano essere strettamente legate.
“L’ultimo spettacolo” e il distacco malinconico da Hollywood
Due date, 1951 e 1971. Una, l’anno di ambientazione di L’ultimo spettacolo, l’altra, l’anno di uscita nelle sale. Nel mezzo, uno dei più grandi cambiamenti nella storia dell’industria cinematografica americana, la fine della Hollywood classica e l’inizio della New Hollywood. Una crisi e poi una reazione. Una rivoluzione. Certo, come ricordava Franco La Polla in Stili americani, si diceva che la New Hollywood “durò lo spazio di un mattino”, anche perché ci volle poco perché nuovi assetti produttivi si consolidassero, ma senza dubbio fu un periodo prolifico e rivoluzionario, pieno di grandi, seppur piccoli, film; e L’ultimo spettacolo, secondo lungo diretto da Peter Bogdanovich, non può che essere annoverato tra questi.
“Pieces of a Woman” e lo sguardo dalla stanza accanto
Le riflessioni etiche e morali sembrano tutt’altro che sviscerate, sono piuttosto messe in secondo piano. Pieces of a Woman è certamente un film sul lutto, sulla maternità, sulla famiglia, sul rapporto tra giustizia legale e giustizia morale, tra responsabilità individuali e collettive, ma allo stesso tempo è un film che – tanto per amor di anti-retorica quanto, forse, per mancanza di coraggio – decide di non prendere delle nette posizioni. Potrebbe risultare un approccio disonesto, spaventato; ma non si può negare che abbia il merito di suggerire un’altra variazione del cinema di Mundruczó, una deviazione rispetto alla tipica tendenza, non sempre calibratissima, di polarizzare i suoi racconti con enfasi retorica ed emotiva.
“We Are Who We Are” e lo scontro tra immaginari
Lo sguardo di Guadagnino è quello di un regista capace di trovare ad ogni sequenza il proprio punto di vista personale, emotivo. Dirige attribuendo significato ad ogni dettaglio (è la stessa poetica che il protagonista Fraser dichiara riguardo al suo stile di abbigliamento, più “slow” che “fast”, e in un senso molto ampio, anche quello di Guadagnino è definibile un cinema “slow”) soffermandosi feticisticamente (come sempre d’altronde) sul particolare, sul trascurabile; intrecciando una serie di momenti, di angoli e di gesti marginali che valgono tutta la serie. We Are Who We Are ci parla anche del “sogno” e dei conflitti generazionali. Così come Euphoria questa serie è una messa in scena della morte del sogno americano, raccontata attraverso la Generazione Z: i giovani cresciuti nell’America post undici settembre.
“Imprevisti digitali” e la cartografia della comunicazione
Imprevisti digitali, ultimo film della coppia Benoît Delépine e Gustave Kervern, Orso d’argento speciale all’ultima Berlinale, è una commedia sui problemi digitali, contemporanei, aberranti, vissuti da personaggi di certo non digitali (in apertura Marie si gratta la schiena contro un albero come farebbe solo un orso), o meglio personaggi che riescono a seguire l’evoluzione digitale, la rincorrono e forse la raggiungono anche, ma che si trovano alla fine sciupati, rovinati, distrutti. Non sono stupidi ma instupiditi. Non sanno interfacciarsi con le post-verità da social, dimenticano le password, non riconoscono le truffe online. Atteggiamenti tanto comuni quanto assurdi, che alimentano una delle intenzioni comiche di questo film, ovvero quella di raccontare vicende totalmente credibili attraverso un registro in continuo bilico tra grottesco e realistico.
“Guerra e pace”. La visione multiforme di D’Anolfi e Parenti
Come nel precedente Spira mirabilis, in concorso a Venezia nel 2016, in questo nuovo film di D’Anolfi e Parenti a padroneggiare è la divisione in storie, luoghi e individui, tra loro lontani e sconosciuti. Se prima il discorso era organizzato per elementi (terra, acqua, aria…) a cui erano legati gesti (scultura, ricerca, creazione di uno strumento…) che si interscambiavano amalgamandosi in un discorso spirituale ed esistenziale, in Guerra e pace tutto è diviso in quattro capitoli: netti, sequenziali e caricati di un forte senso temporale (passato remoto, passato prossimo, presente e futuro), intenti a riflettere sulla guerra ieri e oggi, sulla pace come assenza/conseguenza di essa e sull’immagine come unico punto di incontro/scontro.
“Mandibules” a Venezia 2020
Se la maggior parte dei lavori del regista proponevano importanti riflessioni meta cinematografiche, qui Dupieux si lascia andare al totale nonsense, tralasciando la riflessione teorica senza però mai abbandonare una scrittura e una messinscena inevitabilmente cinefila e cinematografica. Il suo è pur sempre cinema, ed è sempre più cinema. Certamente non mainstream, ma allo stesso tempo sempre meno indipendente, e questo Dupieux lo sfrutta a suo favore, prima nel lavorare con attori di una certa fama (Jean Dujardin e Adèle Haenel in Doppia Pelle, o Adèle Exarchopoulos in questo caso), poi con il giocare sempre meno “attraverso” e sempre più “con” il cinema di genere: se prima era un mezzo per mettere in scena altro, ora è il vero e unico fine.
“The Last of Us Parte II”. Per un’emancipazione dall’estetica cinematografica
Tanto nella produzione quanto nella ricezione, questo secondo capitolo riesce ad essere sintomo di un’ormai avvenuta legittimazione culturale del videogioco. E non solo all’interno del titolo – dove in un’America post-pandemia composta da città violente e pericolose, gli unici luoghi di rifugio, sono musei o teatri – ma anche nell’approccio culturale stesso. La paternità dell’opera, per esempio, oltre che a Naughty Dog (la software house responsabile dello sviluppo), è attribuita a Neil Druckmann: vero e proprio autore e regista, tra i tanti che nel mondo del videogioco compongono un gruppo ormai solido di “firme” differenti tra loro per poetiche, politiche, provenienze geografiche: un vero e proprio “mondo dell’arte”.
“Favolacce”. La crisi e il masochismo
Gli alberi, un temporale estivo, la periferia romana, la disoccupazione e il decadente contemporaneo. Favolacce inizia pienamente assestato sui binari del cinema del reale italiano. E come tale sembra sposare la dedizione verso un racconto degli ultimi, verso uno sguardo sul marginale (dedizione già sviscerata nel precedente La terra dell’abbastanza). Ma, lo si può intuire subito, il secondo film dei fratelli D’Innocenzo (Orso d’argento per la migliore sceneggiatura alla Berlinale 2020) percorre tutta un’altra strada. L’ultima collaborazione dei registi al soggetto di Dogman, per esempio, ne era un fatto sintomatico. I due realizzano un cinema del ritorno agli sfarzi del grottesco, narrativo e poco votato al manierismo, impegnato a raccontare l’oggi.
Storie straordinarie. Il cinema di Mariano Llinás
Mariano Llinás: personalità tanto marginale quanto importante del cinema di oggi. Nato a Buenos Aires nel 1978, regista, produttore, sceneggiatore, attore e professore all’“Universidad del Cine”, Llinás si fa conoscere nel 2002 con il documentario Balnearios (disponibile su MUBI), per poi esordire alla finzione, con grande riconoscimento della critica internazionale, nel 2008 con Historias extraordinarias (sempre su MUBI): film dalla durata notevole (4 ore e poco più) dove il regista inizia a lavorare e ad elaborare il suo personalissimo tono autoriale. Dopo dieci anni di silenzio, nel 2018 presenta, a Locarno, La flor (inedito in Italia): secondo lungometraggio di finzione, dove la sua poetica e il suo cinema vengono pienamente a galla in un’opera che è un vero capolavoro del decennio.
“Il lago delle oche selvatiche” e la vittoria dello stile
Il lago delle oche selvatiche è un neo-noir a tutti gli effetti, con i suoi archetipi, i toni cupi, i delitti, il sesso, le armi, il sangue, l’anonimato, gli inseguimenti, e soprattutto gli ambienti: è immerso in una palude tanto naturale quanto cittadina, tra l’acqua stagnante del lago e quella che scorre dai muri fradici dei luoghi periferici e metropolitani. Dopo la città innevata e ghiacciata di Fuochi d’artificio in pieno giorno (Orso d’oro a Berlino nel 2014), arriva la paludosa provincia cinese, costantemente al centro dei campi lunghi del regista. Un discorso sui luoghi oscuri, importantissimi e, a volte, anche artificiali (qualche fondale dipinto, di città ricche e pulite, che copre le rive del lago).
New York e l’uomo precario. Il cinema dei fratelli Safdie
All’inizio c’era Cassavetes. Così è ancora oggi per gran parte della scena underground del cinema newyorkese. Un’influenza comune che ha fatto scuola dando vita a filmografie numerose che, partendo dallo stesso binario, si diramano in altrettanti percorsi differenti. Se così è, ad esempio, per Noah Baumbach che parte da Cassavetes per arrivare a Woody Allen, altrettanto è per Josh e Benny Safdie – newyorkesi doc, classe ’84 e ’86 – ossessionati all’inizio da un cinema del reale, naïf, umano, poetico; spinti negli ultimi anni verso un cinema più narrativo, artefatto, dal consumo frenetico. Partendo, dunque, da Cassavetes (padre putativo dell’intera scena), occupando territori a loro inesplorati sulla scia di Scorsese, rivolti ad un cinema sempre meno povero nei mezzi, come nell’oggetto del loro sguardo.
“Dylda (Beanpole)” al Torino Film Festival 2019
Kantemir Balagov – regista russo, classe 1991 – decide di mostrare la condizione sociale postbellica, sottofondo di tutto il dramma, partendo da un ospedale. Non c’è modo migliore, infatti, per raccontare il dopoguerra. I luoghi che accolgono l’inizio del film – come dei bunker in cui ancora il popolo si ripara – creano divisioni simmetriche e sintetiche tra uomini e donne, tra stanze d’ospedale piene di reduci di guerra paralizzati o tumefatti e corridori popolati da infermiere dalle quali, invece, parte la ricostruzione. Questa, però, non è così facile e immediata, le divisioni sono ancora evidenti e il sangue non scompare neanche in questo periodo di pace, tra ferite che si aprono e nasi che sanguinano.
“Vitalina Varela” al Torino Film Festival 2019
In Vitalina Varela c’è una forte continuità con il percorso artistico intrapreso da Pedro Costa. A ritornare è il discorso sull’immigrazione capoverdiana in Portogallo avvenuta negli anni settanta e le sue conseguenze nella vita del quartiere popolare di Fontainhas a Lisbona (un altro lutto che ritorna, quello di una comunità intera giunta alla sua deriva più totale). Oltre alle tematiche e ai luoghi, però, ci sono anche i personaggi. Ventura tra tutti, era il protagonista del precedente Cavallo Denaro dove Vitalina era comprimaria; qui avviene uno scambio dei rispettivi ruoli e non è un caso che, nel film, la presenza di qualsiasi soggetto femminile sia rilevante e venga insignita di un’attenzione particolare e di un’aurea di resilienza che contrasta la disillusione e il pentimento maschile.
“Synonymes” al Torino Film Festival 2019
Synonymes è il terzo lungometraggio diretto da Nadav Lapid, Orso d’oro al Festival di Berlino 2019. Prima di tutto un film politico, una produzione franco-israeliana che ragiona proprio sulle relazioni tra le due culture. È definibile “appropriazione culturale bilaterale” quella messa in scena nel film, perché se il protagonista vuole a tutti i costi essere così francese da potersi dimenticare il suo passato smettendo di parlare ebraico, rifiutando di indossare la kippa, rinnegando i suoi genitori e assimilando la conoscenza della nuova lingua, ripetendo sinonimi freneticamente (da qui il titolo del film), allo stesso tempo è oggetto di interesse per i suoi coetanei proprio per la sua origine straniera, fatta di storie (di cui è ignota la veridicità), di lingue sconosciute e di complesse situazioni politiche. Il protagonista, però, non è l’unico; anche il regista Nadav Lapid è in parte soggetto di questa appropriazione “bilaterale”, perché è il suo cinema a viverne.