Il film di John Ridley, presentato in anteprima al Biografilm Festival e riproposto più volte in questi giorni, era molto atteso perché dedicato a un soggetto giudicato irrappresentabile. Se anche altre star del rock portate sul grande schermo rischiano l’effetto boomerang a causa dell’eredità mediatica che gli originali si portano dietro, per Hendrix il problema è centuplicato. Non bastasse l’intoccabilità del mito, Ridley ha dovuto affrontare anche una sfida interna alla storia del cinema, visto che la mitologica esibizione di Jimi Hendrix a Monterey era stata immortalata all’interno di uno dei capisaldi del rockumentary, Jimi Plays Monterey di Hegedus & Pennabaker, peraltro presenti e omaggiati in questi giorni a Bologna.Ebbene, la sfida è parzialmente vinta. Sebbene Ridley continui a oscillare (vale anche per le sue sceneggiature) tra momenti di puro talento e vezzi stilistici, la scelta di rappresentare l’Hendrix londinese del pre-Monterey, e dunque un ragazzo pieno di talento ma inesperto di vita, alternativo per cultura ma scostante per natura, mette al riparo da quei confronti di cui si parlava prima. Jimi: Is All By My Side è un film in levare (non iconicità ma informazioni) e proprio in questa dimensione di incertezza e talvolta di inconcludenza riesce a raschiare la polvere dal mito e ridargli corpo.

Il corpo, appunto. Quello irrappresentabile. In questo caso, grande merito va a André 3000, già cantante e fondatore dei talentuosi Outkast e da tempo nel mondo del cinema e della televisione. La sua trasformazione è sorprendente, e la vera e propria riappropriazione del Jimi pre-mito si colora di una fragilità emotiva e di una attitudine assai credibili. Ridley, lavorando sul centro di gravità rappresentato da André 3000, opera una “privatizzazione” dell’icona di Hendrix, di cui si narrano anche le scelte in termini di moda, stile e autorappresentazione. Insomma, pur imperfetto, Jimi di Ridley merita di essere visto e discusso cinefili e musicofili.