In occasione del grande omaggio a ZimmerFrei del Biografilm Festival, pubblichiamo un saggio comparso nel catalogo del Torino Film Festival 2012, scritto da Roy Menarini, e dedicato a una lettura complessiva, dal punto di vista cinematografico, del collettivo. Ricordiamo che nel corso del festival verrà proiettato il nuovo Hometown Mutonia. Ecco una presentazione. “Mutonia: una città permanentemente provvisoria, che si trasforma nel tempo. Nata dal seme della sperimentazione gettato da traveller e cyber-punk, è diventata una ‘madrepatria’ in cui tornare periodicamente o fermarsi per crescere i figli. Un luogo originale, un esperimento di convivenza sostenibile fatto di case-veicolo, case riciclate, case alternative, dove ancora vive lo spirito dell’anarchia creativa che ha segnato un’epoca. Ma oggi i suoi abitanti raccontano una realtà in pericolo.” Segue.
IL CINEMA COME PORZIONE DI MONDO
Uno degli elementi più indicativi per constatare la vitalità di un gruppo artistico è valutare le reazioni che ha stimolato, e leggere le interpretazioni che sono state date dei suoi lavori. Se tutto sembra acquisito, ripetuto e cristallizzato, c’è da preoccuparsi. Se tutte le cose che vengono dette sembrano al tempo stesso necessarie e insufficienti, invece, è il segnale di un’attività febbrile, inquieta e, perché no, insoddisfatta. ZimmerFrei fa parte del secondo gruppo. Nella ricca produzione artistica dei tre autori la serie dei Panorami e delle opere che si occupano delle città (o di porzioni delle città) esemplifica al meglio questa ricerca inesausta. Si comincia da un dove e non si raggiunge, o non si vuole raggiungere, una stasi, né un punto fermo definitivo, caso mai una tappa, un patrimonio di scelte da cui ripartire. E, appunto, se leggiamo alcune cose che sono state scritte su di loro, e in particolare dei Panorami che qui prendiamo in considerazione, non possiamo che essere d’accordo: “ I Panorami mettono in scena l’inverosimile unione di due temporalità, di due universi non comunicanti, regolati da tempi diversi (…) e i performer appaiono le uniche presenze in grado di opporsi con successo al ritmo catastrofico (anche se a costo di un più sottile e definitivo straniamento) che trascina ogni cosa intorno a loro…” (parole di Stefano Chiodi, tratte dal catalogo di “Campo/largo”, la bella mostra che il MAMbo di Bologna ha dedicato a ZimmerFrei) . O ancora, nelle parole acute di Bruno Di Marino, dal medesimo volume: “I panorami realizzati da ZimmerFrei si ricollegano idealmente a cinque secoli di rappresentazioni artistiche, ma nascono anche dalla necessità di teatralizzare il paesaggio urbano, di mettervi in scena non una narrazione vera e propria, bensì microeventi, spostamenti, possibili trame”.
Eppure, non basta. C’è ancora altro, e non solo in quello che arriva o sta per arrivare. Per esempio, Temporary 8th, che pare slittare su dimensioni ancora differenti da quelle più duramente sperimentali di Panorama Roma e Panorama Harburg, dove la ripresa rotatoria a 360 gradi e l’accelerazione compressa delle immagini agiscono in maniera significativa sul tempo e sullo spazio, e da quelle via via più “narrative” di LKN Confidential e The Hill, legate ai primi lavori grazie alla riflessione sul tessuto urbano. Budapest, che ancora una volta attraverso un quartiere diventa parte per il tutto (e contemporaneamente parte per il niente, sineddoche rifiutata, poiché storia, memoria e presente sembrano collassare su se stesse nel paradossale set cinematografico di una megaproduzione internazionale), si presenta al tempo stesso solida e informe. Ed è questo, oltre che nelle tecniche di rappresentazione scelte, il risultato più sorprendente, poiché ZimmerFrei sembra intendere la presenza di colui che osserva come un elemento destinato, se non a svelare, almeno a interagire (e dunque modificare) il visibile rappresentato, e al contempo il rappresentato modifica inevitabilmente il progetto, ne plasma certe dimensioni, spinge la forma autoriale ad assumere ora un linguaggio esplorativo, ora interlocutorio, o altrove di puro ascolto, di pura registrazione – come nel caso delle perfomance hip hop del giovane ungherese, che cerca di raccontare la sua città e la sua identità con il mezzo musicale suburbano per eccellenza, ma anche in questo caso in “pura perdita”, senza impadronirsi realmente di un senso collettivo.
Detto dell’imprendibilità di ZimmerFrei, e banalmente ripetuta l’impossibilità di classificazione di questi lavori (documentari, sinfonie urbane, ritratti audiovisivi, arte contemporanea in spazi pubblici ecc.), bisogna invece insistere sull’aspetto cinematografico. Per l’appassionato di cinema, ancorché poco erudito sulla scena dell’arte contemporanea oggi, l’incontro con i film di ZimmerFrei è sorprendente e suggestivo.
I panorami e le altre opere citate assumono, fin dal progetto, una dimensione primitiva. Potremmo discutere a lungo delle genealogie intertestuali di Panorama Roma o LKN Confidential, tra Michael Snow, Andy Warhol, Werner Herzog, Walter Ruttmann, il pre-cinema, le avanguardie degli anni Venti e così via, e quasi sempre saremmo nel giusto. Tuttavia non si tratta di esperimenti fuori dal tempo, o dalla propria epoca. Questi lavori sono in perfetta sintonia con un orizzonte odierno di spappolamento del repertorio delle immagini, di ricollocazione dell’heritage cinematografico, in cui il cinema come patrimonio e il cinema come archivio mentale sono al tempo stesso postumi e vivi come non mai.
Il termine, recentemente in auge e già suggerito da altri per ZimmerFrei, di post-cinema, riguarda almeno due classi di pratiche audiovisive. La prima è quella che si indirizza al consumo di cinema su supporti neomediali (schermi urbani, schermi del computer, smartphone, tablet, ecc.), l’altra è quella che identifica l’enorme galassia degli artisti che, ribelli a qualsiasi gerarchia, intuiscono le forme carismatiche della memoria cinematografica e ne saccheggiano il serbatoio, o ne setacciano, come cercatori d’oro, le sintonie più proprie e più adatte. Non di rado, nuova tecnologia e pratica artistica del post-cinema si mescolano con fantasia (si pensi al cinema tridimensionale di Zapruder Filmakersgroup o ai lavori di Yuri Ancarani); nel caso di ZimmerFrei l’immaginario urbano interroga in toto, e frontalmente, i presupposti stessi del fare cinema, e compie il gesto (a suo modo sproporzionato, e dunque eccitante) situandosi profondamente nel contemporaneo. Ecco perché le riprese rotatorie o l’accelerato o la performance attoriale non devono semplicemente rimandare al passato per nobilitarsi. Piuttosto vanno intese come sollecitazioni primarie che mostrano come certi elementi di primitività linguistica possono convivere col massimo della rarefazione e della cura tecnologica.
Ed ecco perché, nel magmatico archivio di opere che ormai ZimmerFrei ha costruito, quelle qui presentate si trovano a proprio agio in un festival del cinema, sia pure nella sua sezione più ibrida. Perché oggi il cinema – al di là del sempre più agonizzante sistema di distribuzione ufficiale – è anche, anzi soprattutto questo, il disperdersi esaltante della storia delle immagini, la riaffermazione del pensiero artistico come orizzonte su cui proiettare e intorbidire l’immagine in movimento, scoprendo – come per caso, come per miracolo – che il cinema rinasce e prolifera proprio nei luoghi della sua reinterpretazione più radicale. Insomma, si reinventa come porzione di mondo, tanto quanto porzioni di città sono quelle che ZimmerFrei promuovono a soggetto filosofico del proprio discorso artistico.
Roy Menarini