Un film che si pone come un atto d’amore verso una città, un tributo a Belfast e alla sua particolarissima storia, sotto forma di un viaggio attraverso il tempo, che non segue un ordine cronologico, ma vaga tra diversi momenti storici e spazi geografici, percorrendo attimi felici e ricordi scuri. La passione di Mark Cousins verso la sua città natale è viscerale al punto da personificarla in un’anziana, ma ancora affascinante signora dal viso segnato, dagli occhi azzurri e biondi capelli. L’intera narrazione si sviluppa in un dialogo tra la voce fuori campo del regista e i racconti di Belfast (interpretata da Helena Bereen) anch’essi in voice over: nonostante la donna sia spesso il fulcro dell’inquadratura, Cousins non la fotografa mai nell’atto di parlare, come a volerla elevare dalla condizione umana di cui le ha donato le sembianze. Lo spettatore è introdotto gradualmente all’interno della città, attraverso scorci della natura circostante, allo stesso modo la donna non è immediatamente inquadrata nella sua totalità, ma presentata attraverso brevi e fugaci dettagli che si vanno ad affiancare alla bellezza delle immagini panoramiche. L’ingresso in città avviene mediante una collina di sale, dove arriva l’acqua del fiume che sfocerà in mare, dove il dolce incontra il salato.
Tale opposizione dicotomica risulterà utile per introdurre la presenza radicata all’interno della città di due fazioni opposte, che si danno lotta da sempre, andando oltre i cosiddetti Troubles, il noto conflitto nordirlandese che ha segnato uno dei periodi più bui di sempre per la città e la comunità di Belfast. Nonostante fosse inevitabile toccare tale argomento, l’intenzione non è quella di mettere assieme una testimonianza documentaria sui conflitti politici dell’epoca, non viene presa nessuna posizione in proposito, eccetto quella di schierarsi senza riserve contro ogni tipo di violenza, a favore di una convivenza pacifica e serena. Tratta l’argomento come una tappa importante e grigia sulla quale è necessario soffermarsi nell’atto di voltarsi indietro, ma guarda avanti fiducioso e ottimista, facendo presente a Belfast che se è caduto il muro di Berlino allora forse c’è speranza anche per Lei e per la risoluzione delle divisioni intestine che la affliggono da sempre. La donna, vittima forse di una disillusione secolare, si accontenterebbe anche solo di confini meno rigidi, dimostrandosi però pessimista verso una possibile e totale risoluzione dei problemi.
Cousins racconta la sua città, le sue strade, la sua gente, attraverso vecchie pellicole di repertorio, canzoni del passato, alternate a immagini della città e microstorie del presente, sulle note del compositore David Holmes; ricorda che il cantiere dove ha visto la luce il Titanic è proprio a lì, a Belfast: negli anni se ne era persa la memoria e l’orgoglio, fino a che la celebre pellicola hollywoodiana ne aveva restituito almeno un poco. Da qui il cinema permea la narrazione: gli uccelli che si posano in strada a Belfast ricordano il grande capolavoro di Hitchcock, così come la veduta del porto richiama alla mente Marnie, gli orrori della guerra sono rappresentati attraverso una scena di J’accuse (pellicola del 1919 firmata Abel Gance) e infine i problemi provenienti dal difficile passato sono dipinti come “il mostro della laguna”, che sta sott’acqua e potrebbe riemergere da un momento all’altro.
La cinefilia si pone come segno distintivo di un autore che ha firmato lavori come A Story of Children and Film e The Story of Film: An Odissey, serie composta da 15 episodi da 60 minuti l’uno, in cui si ripercorre la storia della settima arte. L’amore per il cinema, unito a quello viscerale e incondizionato verso la città, hanno contribuito alla bellezza e poeticità di I Am Belfast.
Stefano Careddu