Fresco reduce dalla candidatura agli Oscar come Miglior film straniero, ma battuto dal favorito Il Cliente di Farhadi, Vi presento Toni Erdmann della regista tedesca Maren Ade è in programma in questi giorni al Cinema Lumière.

Già dalla prima inquadratura, fissa su un’anonima porta di casa con annessi cassonetti dei rifiuti, la regista ci rivela la cifra della sua narrazione: un canto della quotidianità – a volte anche sgradevole – che silenziosa ci assorbe. E dall’apertura di questa porta si dipana la storia di Winfried ed Ines (i bravissimi Peter Simonischek e Sandra Hüller), un padre e una figlia entrambi feriti e dolenti anche se in modi e in mondi completamente diversi. Winfried è un insegnante tedesco di musica in pensione, divorziato, che vive con un cane e che ammazza il tempo dando lezioni di piano a studenti svogliati, accudendo la vecchia madre e indossando piccoli travestimenti per fare scherzetti di cui nessuno ride.

Ines lavora a Bucarest come consulente per una multinazionale tedesca e all’occorrenza diventa tagliatrice di teste: una belva workhaolic, addestrata a fingere e anestetizzata alla vita. Sarà la morte del vecchio cane di famiglia che farà esplodere la carica di solitudine di Winfried e lo convincerà a fare una visita inattesa quanto sgradita alla figlia (di nuovo la Romania, e di nuovo Un padre, una figlia, come nel recente film di Cristian Mungiu). Ma per entrare nel mondo di Ines, Winfried si inventa un alter ego, il Toni Erdmann del titolo (omaggio ad Andy Kaufman e al suo Tony Clifton). L’invadente Toni, che di mestiere fa niente di meno che il lifecoach, inizia così ad intervenire in tutti i momenti privati e di lavoro di Ines, indossando una scomposta parrucca e una storta dentiera che non lo fanno passare inosservato.

Con questo film dal fondo drammatico, ma travestito da commedia e colorato di grottesco, Maren Ade sfida lo spettatore utilizzando una serie di elementi disturbanti. Un padre solo, triste e trasandato che si trasforma in una sorta di Yeti, Kukeri o Gruffalo e dalle favole piomba ingombrante nella vita reale. Una figlia efficiente, anaffettiva e prona alle aspettative altrui, che arriva a ferirsi violentemente un piede per indossare un tacco d’ordinanza (novella scarpetta di cristallo?) richiesto dal lavoro. Una pellicola di 162 minuti, quasi il corrispondente delle tre ore che Ines infligge a Winfried in un centro commerciale ma che noi spettatori al cinema tolleriamo a fatica. Lo scarto per immagini (con molti piano sequenza) fra la ricca Germania e la sofferente Romania, la cui veste apparentemente moderna e competitiva non corrisponde all’anima ancora povera e ferita.

Eppure dalle note volutamente stonate di questa narrazione nascono scene divertenti e surreali come quando Toni rifiuta di sniffare cocaina e per tutta risposta si grattugia del formaggio in testa. O scene potenti e poetiche come il pianto di Ines al balcone o la sua fuga in vestaglia nel parco per inseguire il padre. O momenti inaspettati come il canto allo stesso tempo trattenuto e liberatorio di Ines sulla traccia di Greatest Love of All di Whitney Houston.

Nonostante gli ostacoli, infatti, fatichiamo a staccarci dalla storia di Winfried e Ines, perché la materia che tratta questo film è molto umana, è uno spaccato di vita filtrata attraverso la fragilità dei nostri sentimenti. Maren Ade quasi all’inizio del film ci fa infatti una domanda: “Ma per cosa vale la pena vivere?”. E nella vita così amara e senza anima di Ines, nei tentativi maldestri e poetici di Winfried, in un mondo che va a velocità diverse e inconciliabili, nell’anestesia della routine lavorativa, rincorriamo una risposta. O almeno degli indizi, come un cappello buffo e una dentiera storta.

Lorenza Govoni