Karumen kokyō ni kaeru (Carmen Comes Home, 1951), commedia satirica en plein air diretta da Keisuke Kinoshita, è noto innanzitutto come il primo film a essere stato girato su pellicola di marca prettamente nipponica, ovvero in Fujicolor, a celebrazione del trentesimo anniversario di attività della Shōchiku nel campo della produzione cinematografica. In realtà, il procedimento giapponese richiedeva una lavorazione più lunga e difficoltosa (con conseguente lievitazione dei costi) rispetto alle controparti di importazione, e risultava inoltre inadatto alle riprese in interni, cosa che spiega la pressoché totale assenza di ambienti chiusi nel corso del film. Per questo e altri motivi ne venne realizzata contemporaneamente una versione in bianco e nero che godette di una distribuzione assai più capillare.

Kinoshita, non solo uno dei registi più amati dai giapponesi ma anche uno dei più eclettici e interessati a giocare con lo stile e con le innovazioni tecniche, fa in questo film un uso intelligente del colore (così come del sonoro, a onor del vero), rendendolo un elemento cardine della narrazione senza per questo rinunciare al suo carattere di “attrazione mostrativa”. Basti pensare a come è attentamente costruito e alimentato il senso d’attesa per l’entrata in scena della protagonista, preceduta, nei dialoghi degli abitanti di un villaggio sperduto tra le Alpi giapponesi, dall’esotismo del suo nome d’arte, Carmen, dalle voci di ammirazione sui suoi successi metropolitani e, naturalmente, dal desiderio del pubblico di vedere una delle più celebri dive del cinema nipponico di quegli anni, Hideko Takamine, nelle inedite vesti di una sgargiante e sexy modern girl.

La gamma cromatica del lungo incipit del film, caratterizzata per lo più da verdi e marroni sbiaditi, viene così scossa dall’arrivo in stazione di Carmen e dell’amica, vestite in tinte di fuoco e agghindate di accessori multicolore. Allo stesso modo, la presenza delle due ragazze, un po’ sciocche e parecchio vanesie, genera tutta una serie di opposizioni dicotomiche, puntualmente ribadite da altre coloratissime entrate in scena che sottolineano con leggerezza il senso di ridicolo generato dalla incongruità dei loro atteggiamenti rispetto al contesto. Se le due ballerine rappresentano la modernità, le pressanti influenze culturali dell’Occidente, il lusso sfrontato e la voglia di voltare l’angolo rispetto a un passato poco lontano, nelle figure morigerate e malinconiche del padre di Carmen, del direttore della scuola e del maestro cieco (caratteristica certamente non casuale, in un film tutto basato sui colori), troviamo le resistenze, gli spettri della guerra non ancora estinti e i dubbi del furusato (il paese natio, esplicitamente portato in campo dalla canzone composta dal maestro, la quale si pone anche all’origine del climax drammatico del film) circa il valore culturale e la gaia spensieratezza di tale approccio.

Ma lo sguardo di Kinoshita è quello di un regista innamorato dei propri personaggi, e non mostra mai un pesante giudizio nei loro confronti, né presenta come nettamente conflittuale la relazione dinamica che si viene a instaurare tra i due poli, tanto che, sorprendentemente, il graduale spogliarsi delle due ragazze in direzione dello strip-tease finale non sfocia tanto nell’oltraggio che ci si attendeva, quanto in un progressivo e generoso “scolorirsi” verso l’altro. Forse Carmen e la sua amica non sono le “artiste” che il villaggio si aspettava di accogliere e che loro stesse pensano di essere, ma sarà solo grazie al loro spogliarello raffazzonato e fuori luogo che il maestro, rimasto povero e cieco dopo la guerra, riavrà indietro l’organo su cui cantare le “autentiche” bellezze del paese natio.

Giacomo Calorio