Natsuko no boken è il secondo film a colori della Shochiku, dopo quello che fu il primo lungometraggio commerciale giapponese in Fujicolor – Karumen kokyo ni kaeru. Il soggetto è tratto dall’omonimo romanzo di Yukio Mishima, scritto nel 1951: tre anni dopo Kamen no kokuhaku (Confessioni di una maschera), forse assieme a Kinkaku-ji (Il padiglione d’oro) l’opera più nota dell’autore per il pubblico italiano. Con Confessioni di una maschera, la storia dà l’impressione di condividere gli intenti parodici nei confronti di tanta narrativa coeva – confessionale, appunto – portando a livelli iperbolici la perizia dello scavo introspettivo del narratore. Dietro alle premesse melodrammatiche, Natsuko si rivela un film piuttosto spassoso, grazie alla desultoria incoerenza dei suoi cambi di umore e ai personaggi volutamente sconclusionati, nella loro surreale franchezza. Nonostante l’assenza di immagine o di sonoro in alcuni punti, alcuni persino nevralgici nella trama, la visione rimane estremamente godibile; talvolta l’effetto straniante che deriva da questi danneggiamenti della pellicola risulta curiosamente appropriato, per il carattere decisamente sopra le righe della vicenda. Il restauro restituisce pur sempre dei colori magnifici, sfoggiati soprattutto grazie ai panorami lussureggianti dell’Hokkaido, in contrasto espressivo con le sobrie tinte degli interni di città.

L’omonima protagonista del film è una giovane donna in età da marito, annoiata dall’insipienza degli uomini di Tokyo: in nessuno dei pretendenti le riesce di trovare la passione che vorrebbe. Giulivamente capricciosa e a dir poco eccentrica, la ragazza decide di entrare nel convento dei trappisti di Hakodate – con sommo raccapriccio della famiglia. Natsuko però sa essere pervicace nella volubilità, e riesce a farsi esaudire; durante il viaggio incontra Tsuyoshi, un cacciatore dallo sguardo appassionato a sua volta diretto sul monte Hakodate, del quale intuisce la ben diversa tempra rispetto ai tanti corteggiatori di città. Tsuyoshi ha effettivamente una missione: vendicare la donna che amava, Akiko, uccisa da un orso che si scoprirà essere il terrore dei cittadini della zona. Natsuko non può che rimanere attratta dalla risolutezza dell’uomo, e la sete di esperienza la spinge irresistibilmente a seguirlo nell’impresa, eludendo i molteplici tentativi di liberarsi di lei. Non ci vuole una fantasia esagerata per prevedere che l’impresa andrà a buon fine, e che almeno Tsuyoshi si innamorerà seriamente.

Sui sentimenti di Natsuko rimane invece un’ambiguità che potrebbe essere una chiave di lettura importante per il film. Nel suo rifiuto di maritarsi, dietro alla noia e al capriccio è possibile intravedere anche una ricerca di autenticità, nel boicottaggio di una routine terribilmente borghese e dell’automatismo comunicativo; tuttavia l’esperienza della caccia non si risolve in una maturazione, al punto che il matrimonio con Tsuyoshi per qualche secondo sembra sfumare. Ansioso di provvedere al futuro della coppia, forse il cacciatore perde veramente qualcosa di sé per conformarsi significativamente ai pretendenti da cui Natsuko era fuggita; ma d’altra parte, la prontezza della ragazza nel prospettare un due di picche spinge a deviare la ricerca della passione verso il consumismo dell’esperienza, potenziale sintomo di una malattia esistenziale – fra gli effetti della breve stagione dell’occupazione americana, che ha condizionato duraturamente i costumi giapponesi. Per tutta la vita Mishima si oppose veementemente alla colonizzazione culturale, rivendicando un ritorno della nazione in sé stessa – questo fu il significato profondo del suo suicidio rituale, avvenuto attraverso il seppuku. Dunque non è forse un caso che la protagonista sia l’unica della famiglia a vestire all’occidentale, particolare evidenziato nel finale dalla sorella di Akiko, che l’accuserà di essere soltanto una donnetta viziata e di inclinazione romanzesca, sempre impegnata a straparlare “col suo vestito all’americana”.

Thi Hòa Evangelisti