Film “imbevuto dello spirito del suo tempo” (Bertrand Tavernier), Rendez-vous de Juillet è un’opera inarrestabile, dotata di una tale energia da suscitare persino il dubbio che non sia Jacques Becker a condurre la storia ma che siano i personaggi a trascinare il regista (e noi con lui) da una scena all’altra, da un ballo all’altro. L’impetuosa carica dei giovani bohémien, che si sprigiona tanto nei balli scatenati quanto nei dialoghi incalzanti, si rispecchia visivamente in una regia mobile, che segue un personaggio da una stanza all’altra o tra un interno e un esterno, per poi abbandonarlo e seguire, fino all’incontro successivo, colui o colei a cui ci ha condotti. Persino il telefono assume non tanto una funzione meramente comunicativa quanto quella di passare le consegne visive da un appartamento a una bottega di parrucchiere. La pulizia dell’immagine e dei movimenti di macchina riflette quella della gioventù francese, così arrabbiata, così frustrata, sul punto di perdere le illusioni e la virtù ma che si salva per un soffio (con un’unica eccezione), auto-trascinata dall’entusiasmo e dalla fiducia nel futuro e nelle proprie forze. Anche il mezzo anfibio con cui si spostano i ragazzi diventa metafora del loro continuo muoversi e della capacità di adattarsi alle circostanze sfavorevoli e di trovare una soluzione ai problemi.
Fondamentale in questo senso la contrapposizione generazionale che oppone i padri ai figli: i primi focalizzati sul lavoro, sulle regole (la cravatta a pranzo), sulla realizzazione economica; i secondi immersi nel teatro, nei progetti avventurosi, nella musica. Questa opposizione si sviluppa innanzitutto dal punto di vista drammaturgico e visivo: gli interni sempre in ordine, regno degli adulti; gli esterni assolati o i locali affollatissimi come le cantine e i Caveau des Lorientais, regno dei giovani.
Anche il sonoro rimarca questo dualismo: la contrapposizione è evidente già dalla prima sequenza, quando la macchina da presa ci accompagna dalla strada dove imperversa un caotico rumore di traffico a un interno silenzioso in cui gli unici suoni percepiti sono l’orologio a parete e il campanello. Ma è soprattutto la musica a fare la differenza. I Lorientais non sono soltanto un luogo di ritrovo bensì un punto di riferimento generazionale: il jazz, al suono del quale si scatenano i protagonisti raggiungendo delle vere e proprie “estasi collettive” (Raymond Quénau), era mezzo di espressione della giovane energia del dopoguerra, quando si voleva realizzare il futuro senza rinunciare alle proprie aspirazioni. La veridicità di questo ritratto generazionale basato su fatti e personaggi reali (la figura di Lucien è ispirata a Jacques Dupont, cineasta-esploratore), fissata sulla pellicola da una regia impeccabile, viene dunque fortificata dalla presenza nel film di grandi musicisti quali Claude Luter e Rex Stewart.
Alessandro Guatti – Associazione Culturale Leitmovie