“Chaplin raggiunse l’apice della sua carriera di compositore proprio con la colonna sonora di Tempi moderni, una partitura innovativa ed estremamente complessa che segnò indubbiamente un passo in avanti da un punto di vista musicale e pratico”. Queste le parole di Timothy Brock supervisore del restauro della partitura del film, nonché direttore dell’orchestra del teatro comunale di Bologna che ieri ha eseguito dal vivo la colonna sonora nel corso della serata d’apertura del Cinema Ritrovato. Il cineconcerto di 89 minuti implementa la potenza simbolica del film, ancora oggi, dopo settant’anni, metafora di una condizione umana che si batte contro una società ormai fredda e meccanizzata. Ma allo stesso tempo la partitura di Tempi moderni è un’arguta riflessione sull’ontologia stessa del suono. Da sottolineare il fatto che sceglie di servirsi di un’orchestra sinfonica di 64 elementi. Un organico grandioso che aveva lo scopo di descrivere e di meditare sull’elemento sonoro.
È interessante notare che nella prima parte del film i suoni diegetici sono utilizzati come effetto sonoro della fabbrica in cui lavora Charlot. I monitor, gli altoparlanti e le radio diventano elementi coadiuvanti di una colonna sonora extradiegetica che simula lo sferragliare delle catene di montaggio, ma anche l’esaurimento nervoso degli operai. Solo con l’entrata in scena della Monella viene introdotto il leitmotiv legato ai due personaggi, lo stesso che nel 1954, con l’aggiunta delle parole di John Turner e Geoffrey Parsons diventerà lo standard Smile. Un verso della canzone riprenderà proprio la didascalia “What’s the use of trying?”: provarci serve a conquistarsi quell’anelata felicità di cui si parla nel cartello di apertura. Infatti, come sottolineava von Bagh, l’immagine del Vagabondo e della Monella che si allontanano verso l’orizzonte è “la più riuscita rappresentazione della felicità umana che sia stata mai portata sullo schermo”.
Ma Tempi moderni è anche il film in cui Chaplin compie il suo sforzo artistico più grande, decidendo di far ascoltare a tutti la voce di Charlot per la prima e ultima volta. Eppure Charlot non parla, canta. La celebre performance di Je cherche après Titine riassume alla perfezione il complicato rapporto di Chaplin con il sonoro: compositore attento ed esigente, ma allo stesso tempo incapace di accettare che il suo personaggio non potesse più “parlare” il linguaggio universale dei silent movies.
La canzone nonsense di Léo Daniderff, sfruttando le potenzialità comunicative del gibberish, diventa così l’escamotage perfetto e geniale per rendere la voce del Vagabondo comprendibile a livello universale. Da sottolineare che la sequenza non è accompagnata dall’orchestra: nel momento in cui Chaplin inizia a cantare gli strumenti si bloccano. Una doppia valenza tra diegetico ed extradiegetico che ci porta ad affermare che Tempi moderni sia un’opera sperimentale che esplora le possibilità del suono ma allo stesso tempo i suoi limiti.
Federica Marcucci – Associazione Culturale Leitmovie