In corso in questi giorni a Bologna, Cinemafrica 2016 dimostra come il cinema africano sia il miglior testimone delle veementi trasformazioni che il continente sta drammaticamente attraversando, e perché non possiamo che esserne interessati.
Appena apro gli occhi – Canto per la libertà segna il passaggio al lungometraggio di Leyla Bouzid, giovane regista nordafricana che con il suo lavoro presentato a Venezia 72 offre una sentita e coraggiosa riflessione sull’essere donna nella Tunisia a ridosso della primavera araba. Farah è una diciottenne vocalist di un gruppo rock le cui canzoni, cariche di espliciti messaggi politici, sono veri e propri inni per la sua generazione. Il suo desiderio di proseguire la carriera musicale cozza con la volontà dei genitori che la vorrebbero studentessa di medicina, preoccupati che le idee manifestate in musica dalla figlia possano provocarle problemi con le autorità, espressione di un governo repressivo e conservatore. Ma la testardaggine della giovane emancipata ed ambiziosa e l’amore per il liutista e arrangiatore del complesso, la portano a seguire la propria strada incurante dei rischi in una società chiusa e retrograda che fatica a comprendere e accettare il cambiamento in atto di cui Farah è espressione.
A distanza di pochi anni dalla rivoluzione internazionale che ha ribaltato il sistema politico nel Nord Africa e nell’attuale situazione nazionale dove la scossa rinnovatrice non ha saputo affermare un nuovo ordine civile, il film di Bouzid si carica di particolari valenze, facendosi denuncia di una condizione sospesa e irrisolta. Il ritratto femminile offerto dalla regista è allora quello di una generazione – e di una terra – ancora impossibilitata a esprimersi appieno, pur non arresa allo stallo civile a cui ora è costretta: sono i brani di Farah a fungere da monito verso una popolo che deve “aprire gli occhi”, guardare al presente con la consapevolezza del proprio passato quanto di un futuro ormai alle porte che non può né deve essere ignorato.
In questo senso risultano esemplificative le sonorità della band che, affiancando strumenti tradizionali come il liuto ad altri moderni e di matrice occidentale come sintetizzatori, basso e batteria, fondono melodie arabeggianti con un rock energico e massiccio, segno di una contaminazione culturale da cui è necessario partire per un aggiornamento comunitario stabile e duraturo.
Nel finale, quando la ragazza dopo l’arresto e le violenze subite in carcere viene teneramente consolata dalla madre che l’invita a continuare a mezzavoce la canzone da lei intonata, la regista esplica il suo messaggio, un invito a non arrendersi e alzare, dopo la sconfitta, la testa e la voce in un corale canto di libertà.
Lapo Gresleri – Associazione Culturale Leitmovie