In un film slabbrato e così imbevuto di contrasti, in un film di enfasi e gonfiori, dove ogni scena è la scena madre e dove ogni occasione è adattata ad un formicolio costante di tensioni e angosce, in un film insomma di pura plusvalenza espressiva come Elegia americana non è semplice fare del patriottismo senza produrre allo stesso tempo eccessi e incongruenze.

Ron Howard non è certo dalla parte di Spielberg o Emmerich, che sul rapporto con il proprio paese hanno sviluppato mitologie e costruito codici di rappresentazione oramai collaudati, piuttosto sembra più vicino al miglior Eastwood, l’uomo per cui essere patriota non significa accomodarsi su entusiasmi e suggestioni nazionalistiche ma piuttosto raccontare le anomalie dello stato insieme alle armi per contrastarle. Come dire, il paese è avvelenato ma ad ogni modo capace di trovare l’antidoto ai suoi mali; in questo senso Richard Jewell e Sully sono due modelli ben più rivoluzionari di quanto il loro classicismo non riveli.

Elegia americana tenta di produrre il medesimo discorso e l’America che indaga, quella retrograda e furiosa di Ohio e Kentucky, quella di figli senza padri e di famiglie che di generazione in generazione hanno ereditato l’assenza di linguaggio, non solo è passibile di risorgenze, e quindi di storie a lieto fine, ma è addirittura il luogo dove essere i “bifolchi” è persino una questione di sopravvivenza. A quattro anni di distanza dall’elezione di Trump, Ron Howard riflette sulle persone che lo hanno votato, sul popolo che in lui ha visto una legittimazione alla propria rabbia e una rivendicazione dei propri traumi: al termine del mandato e all’alba dell’era Biden, la storia vera di J. D. Vance invita prima di tutto a fare i conti con gli esiti del precedente mandato, per capire se di progressi ce ne sono effettivamente stati, poi ci ricorda da una parte che una rinascita è possibile addirittura alla periferia della civiltà, nei luoghi del sottosviluppo ideologico e dell’odio, e dall’altra che le ragioni dell’arretratezza sono misurate attraverso la profondità della ferita.

Che cosa è successo, insomma, a queste persone? Perché una storia di rivalsa che proviene da lì è sempre e comunque una storia eccezionale? Dunque, prima ancora dell’epopea individuale che il cinema hollywoodiano così tanto ama, è nella relazione con la realtà sociale statunitense che le vicende di Elegia americana guadagnano davvero verticalità emotiva. Eppure Ron Howard sembra intuire il potenziale narrativo della materia che ha tra le mani, ma preferisce guardare ai drammi e alle contraddizioni del mondo come dal buco della serratura, mentre tutto ciò che accade nella stanza viene esasperato e dilatato come se dovesse rappresentare qualcosa di più del suo contesto.

Purtroppo la famiglia Vance non è archetipo, o perlomeno non è inquadrata come se dovesse esserlo, non viene colta con altri mezzi espressivi che non siano il sovraccarico e la sottolineatura, pretende di ricondurre a sé i dolori di quel mondo di cui si sente il sintomo, ma finisce col rappresentarne una semplice specchiatura perché tutto è troppo detto e troppo urlato per celare significati nascosti al di là del testo.

Elegia americana, a dispetto del titolo che richiede un’identificazione collettiva e un allargamento di prospettiva, è più interessato alla sua copertura di superficie, sembra stato pensato per dire la sua più agli Oscar che non sulla crisi sociale e politica dell’America di oggi. Ad un cinema che vuole essere a modo suo patriottico di certo non si chiedono la crudeltà spietata di Un gelido inverno o la dissacrazione implacabile di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, due fra i più feroci resoconti dell’ignoranza e della brutalità made in USA, ma nemmeno che il racconto del contesto diventi un momento sussidiario o che il riscatto del protagonista da insignificante solitudine a prodigio di Yale anestetizzi le sue possibilità di diventare prototipo.

Ron Howard pretende, in definitiva, che gioiamo dell’impresa annessionistica di J. D. con il mondo civilizzato, dell’America conservatrice con quella progressista, senza tuttavia concedere o mostrare davvero né il mondo né tantomeno l’America.