Presentato alla Berlinale 2015, il documentario diretto da Jack Walsh arriva alla sezione cinematografica di Gender Bender. Il documentario ci racconta la vita di Yvonne Rainer, artista d’avanguardia che da più di cinquant’anni ha rivoluzionato completamente il linguaggio artistico della danza, della performance e del cinema. L’opera di Jack Walsh rispetta i canoni stilistici del documentario inteso in senso classico, proponendo una serie di interviste ad amici e colleghi, e a Yvonne stessa, alternate a immagini e video di repertorio. Una struttura forse un po’ troppo convenzionale, considerata la protagonista: una donna che ha sempre cercato di stupire il suo pubblico, sovvertendo qualsiasi schema precostituito.
Yvonne è una ballerina, coreografa e regista che ama spingersi oltre i confini imposti dalle convenzioni socio-culturali. A disagio in un corpo di donna, da lei stessa più volte definito “strano” e “sgraziato”, Yvonne utilizza l’arte per dare voce a tematiche di grande rilevanza politica e culturale, come il femminismo e il multiculturalismo, riuscendo sempre a fornire un punto di vista originale e anticonformista.
Squisitamente immersa nel mood irrequieto e desideroso di cambiamento che ha caratterizzato gli anni ’70, l’arte di Yvonne ha saputo mettere in discussione qualsiasi “dato di fatto”. Intere esibizioni di danza senza musica, balletti in cui i ballerini non seguono il ritmo della musica, spettacoli che portano in scena movimenti quotidiani, senza spazio per piroette e altri virtuosismi propri della danza “classica”: sperimentare è la parola d’ordine.
Nella prima parte del documentario viene quindi dato spazio all’evoluzione artistica di Yvonne, a partire dagli anni ’60, con la prima scuola di ballo e le prime esibizioni a Greenwich Village a New York. Ma è nella seconda parte che Feelings Are Facts si fa più interessante: finalmente iniziamo a conoscere qualcosa del passato di Yvonne. Un’infanzia difficile priva della figura materna, un’adolescenza solitaria che la porterà a decidere di interrompere i suoi studi, un padre autoritario e assente al tempo stesso. Mettendo insieme i vari tasselli è possibile capire, almeno parzialmente, come Yvonne abbia cercato di tradurre in forma artistica – soprattutto cinematografica – i suoi disagi.
Tuttavia, si ha l’impressione che un approfondimento maggiore di alcuni aspetti avrebbe sicuramente giovato alla resa finale del film: la struttura narrativa appare frammentaria, arrivando a toccare solo in superficie eventi che avrebbero meritato maggiore spazio (come la malattia di Yvonne, o il suo coming out in età avanzata). Occorre scavare un po’ più a fondo per rendere giustizia alla rappresentazione di una personalità eclettica e complessa come quella di Yvonne, oggi ottantenne, e ancora intenta a sperimentare.
Barbara Monti