Il soggetto di Konjiki yasha (Il demone d’oro, 1954) è tratto da un celebre romanzo di Kōyō Ozaki, già portato sullo schermo numerose volte ma, prima di allora, mai a colori. La versione diretta dall’attore e regista Kōji Shima è infatti il secondo film realizzato in Eastman Color dalla Daiei. L’intreccio era dunque già piuttosto noto agli spettatori dell’epoca, e forse per questo è qui trattato in maniera un po’ confusa, dando per scontati alcuni passaggi (specialmente nella seconda parte che indirizza lo spettatore verso il finale attraverso evidenti forzature): una coppia di innamorati, Miya e Kan’ichi, viene separata quando i genitori di lei la convincono a sposare un uomo ricco con la promessa che questi sosterrà finanziariamente gli studi all’estero del ragazzo; Miya decide di sacrificare il suo amore per il bene dell’amato, ma il trauma della separazione conduce lui sulla cattiva strada dello strozzinaggio, lei a una vita coniugale infelice, dal momento che il marito la maltratta per vendicarsi della sua incapacità di dimenticare il fidanzato di un tempo; solo alla fine, in seguito a un incendio che brucerà la sontuosa residenza di Kan’ichi, simbolo delle sue malefatte, i due si ricongiungeranno. I temi del sacrificio femminile e della caduta morale dell’uomo (che qui decide di consacrare la sua vita al denaro dopo essere stato tradito per esso) non sono certo nuovi, ma rispetto a tanti soggetti simili colpiscono il coraggio e l’intraprendenza di Miya quando, alla fine, decide di ribellarsi al destino, abbandonando il marito per ricongiungersi a Kan’ichi.
Opera di pregevole fattura seppure di originalità contenuta, Konjiki yasha riproduce scrupolosamente le atmosfere del Giappone del periodo Meiji non solo nei costumi, negli arredamenti e nell’oggettistica (un profumo francese, un biliardo, una lanterna magica), influenzati dalla recente apertura all’Occidente e dalle sue mode, ma anche, sebbene in un’unica occasione, nel linguaggio: a un certo punto Miya sussurra al suo amato le parole “I love you”, quasi a strizzare l’occhio allo spettatore suggerendo un parallelo tra l’epoca rappresentata e il presente del Giappone postbellico influenzato dai costumi americani. Le scene d’amore sono trattate con pudica discrezione, per mezzo di ombrelli e altre barriere che impediscono con eleganza la visione dei baci, mentre il film tocca i suoi picchi di massima intensità nella sequenza dell’addio sulla spiaggia e, soprattutto, in quelle che vedono Miya umiliata dal marito e dalle geisha che lui porta in casa, attraverso un attento uso della prossemica e delle cornici interne che enfatizzano la condizione di prostrazione della donna, la quale tuttavia reagisce trasformando l’onta di dover suonare il koto per le ospiti indesiderate, in una sorta di invettiva sonora formulata tramite un vibrante crescendo musicale.
Per quanto riguarda l’adozione dell’Eastman Color, il direttore della fotografia Michio Takashi (che anni dopo lavorerà a Hiroshima mon amour per le parti giapponesi), ne mette in risalto le qualità nella scena dell’incendio, di un realismo sorprendente. La stessa luce calda originata delle fiamme viene ripresa nella scena finale del tramonto in riva al lago, come a ribadire l’importanza del rogo, che ha bruciato il denaro dell’uomo e risvegliato la coscienza della donna, nel fare tabula rasa delle scelte sbagliate del passato e delle loro conseguenze, offrendo ai due amanti un futuro radioso.
Giacomo Calorio