Programmata in occasione di Sotto le stelle del cinema 2016, la proiezione di Per amor vostro permette di tornare su un regista – Giuseppe Gaudino – e su un’attrice – Valeria Golino – che insieme hanno trovato uno stato di gtrazie senza precedenti. Il film, magico e denso, verrà accompagnato dai due artisti. A seguire, una brevissima antologia critica. 

Diciotto anni dopo Giro di lune tra terra e mare, Giuseppe Gaudino torna al lungometraggio di finzione. E se il film precedente era un viaggio nel passato e nel presente di Pozzuoli e forse dell’Occidente, svolto con le armi del cinema di poesia, qui il regista cerca una costruzione più narrativa; secolarizza, potremmo dire, il mito che nel primo film affrontava di petto. Se lì si muoveva in incastri di piani, tempi storici, personaggi accennati tra mille figure, qui c’è una protagonista vera, Anna, magistralmente interpretata da Valeria Golino (meritatissima Coppa Volpi a Venezia). Anna vive a Napoli, di mestiere regge il ‘gobbo’ in uno studio televisivo, ed è alle prese con il normale squallore di una famiglia di infima borghesia: ma nel suo passato c’è qualcosa di doloroso e, nel suo presente, molto che lei preferisce non sapere. È a suo modo una santa folle, e così la raffigurano certi siparietti dipinti e musicati, che continuamente tolgono il film da ogni sospetto di realismo minuto. Il regista asseconda questa donna visionaria in una percezione apocalittica della realtà, con l’acqua e il vento che sembrano minacciare il mondo, e alla fine addirittura trasformarlo in ciò che già è, ossia l’inferno. Il mare non bagna Napoli, la ingoia. Non siamo in effetti lontani da certe figure e certi temi di Anna Maria Ortese o di Fabrizia Ramondino, che fanno saltare un equilibrio domestico, da teatrino di Eduardo trasferito in condominio. Ma è proprio la morale di una borghesia post-eduardiana che la donna rifiuta, e gli eccessi del film sembrano mostrare anche questo: un ostinato sublime, magari represso, contro chi vive dicendo “È cosa ‘e niente”.
(Emiliano Morreale)

 

Ci vuole un certo coraggio per costringere al bianco e nero Valeria Golino, che ha sempre gravitato i propri personaggi sulle espressioni del volto e sulle gradazioni d’azzurro degli occhi. I film con la Golino lavorano per questo motivo prevalentemente sul primo piano, perché – e non è un difetto, solo una scelta – per questo tipo di attrice conta più l’incisività facciale della prossemica corporea. E dunque sottrarre i colori al volto e agli occhi della Golino, per (quasi) tutto il film e per la prima volta nella sua carriera, non è cosa da poco, specie se poi l’intera pellicola sta sulle sue spalle e dentro i suoi sguardi. Lode dunque a Giuseppe M. Gaudino che, dopo 18 anni dall’ultimo lungometraggio di finzione (Giro di lune tra terra e mare), affronta questa sfida. La riuscita innegabile della figura di Anna poggia, oltre che sulla già citata ed eccezionale sensibilità dell’attrice, anche sulla conoscenza del cinema napoletano da parte di Gaudino. E se la rappresentazione della città come “Partenope arcaica” ricorda quella dei compagni di viaggio degli anni Novanta (la nouvelle vague napoletana di Martone, Corsicato, Servillo ecc.), stavolta c’è qualcosa di più. Anna e il bianco e nero sono modellati sul ricordo del muto napoletano, e della straordinaria, ricchissima produzione che fiorì negli anni Dieci e in parte negli anni Venti. L’ovvio riferimento può essere Assunta Spina (e non suoni affatto eccessivo l’accostamento tra Valeria Golino e Francesca Bertini), sebbene la memoria corra soprattutto ai film di Elvira Notari. Prima regista donna del cinema italiano, pioniera della nascente (e presto stroncata) industria del cinema partenopeo, scrittrice e produttrice, la Notari ha realizzato decine di film, tutti ambientati in una Napoli corrusca e proletaria, segnati da un dialogo culturale e popolare con il coevo teatro popolare, e il più delle volte centrati su figure di donne tragiche e a contatto con la malavita e il lato oscuro della città.

(Roy Menarini)

 
Il film nasce molti anni fa, perché ero interessato a raccontare la difficoltà di parlare, di relazionarsi e di usare un linguaggio in una figura femminile. Però all’inizio è sempre stata Anna, cioè fin da subito c’era questa figura di suggeritrice che lavora in televisione. Sapevamo che doveva essere la parola e la difficoltà di dar voce alla parola il problema di Anna, perché nella parola si condensa spesso il concetto di riscatto. Tu, parlando a te stessa, interiormente, usi un concetto verbale per dire delle cose, e la parola non adeguata, la parola non detta, era il tema centrale del racconto. E fare la suggeritrice era appunto mostrare colei che suggerisce per iscritto le parole giuste per questa rappresentazione. Era la cartina di tornasole per raccontare lo sforzo e i potenziali di una persona che avesse delle attitudini a capire chi era in difficoltà, in difficoltà con la parola. La prima persona a cui avevo mandato la sceneggiatura – quando ancora il progetto si chiamava Un angolo di inferno – era Valeria Golino. Non era riuscita a leggerla, ma dopo un anno e mezzo ebbi l’intuizione di insistere di nuovo e… andò bene. Ci sentimmo subito dopo. Volevo raccontare di una persona, oltre che la sua forza umana – da anima senza destino a anima in grado di trovare il suo vero scopo – la bellezza e il rovescio della bellezza.
(Giuseppe Gaudino)