In occasione della rassegna su Hopper e il cinema, abbiamo assistito alla proiezione di I Gansters (The Killers) di Robert Siodmak, tratto nel 1946 da un racconto di Ernest Hemingway e interpretato dai giovanissimi Burt Lancaster (al suo debutto cinematografico) e Ava Gardner (che con questo film attirò l’attenzione del grande pubblico). Se è vero – come ha sottolineato Wim Wenders – che i quadri di Hopper sono “inizi di film”, I Gangsters ne è la dimostrazione concreta. Due killer arrivano in uno sperduto paesino del New Jersey, nel buio si avvicinano ad un ristorante che dal suo interno getta la luce in strada.
I due, in completo scuro e con il cappello a tesa larga, entrano e si siedono ad un bancone tondeggiante dove verranno serviti dal proprietario vestito di bianco. Anche agli occhi di chi non conosce a fondo la produzione di Hopper risulta abbastanza evidente che siamo esattamente dentro a Nighthawks, l’opera più famosa del pittore americano. Non ci siamo solo a livello figurativo, ma anche psicologico. Così come Hopper indugia su un fermo immagine pittorico, una sospensione temporale, uno stato d’attesa di qualcosa che deve succedere così Siodmak prende tempo e mentre riempie col suo racconto il quadro di Hopper crea nello spettatore la curiosità e il timore di quello che sta per accadere. Cosa succede? Chi sono quei due? Cosa si diranno? Le stesse domande che ci facciamo davanti al quadro di Hopper, Siodmak ce le fa ripetere come spettatori del suo film.
Poco dopo scopriremo che si tratta di due killer assoldati per uccidere Pete Lunn (Burt Lancaster) detto lo svedese, frequentatore abituale del dinner restaurant, che però quella sera non si presenta nel locale. Ma il destino di Lunn, che nel frattempo attende la morte steso sul suo letto, immobile e rassegnato nella propria camera d’albergo, è ormai segnato: i sicari escono dal ristorante e si dirigono verso la stazione di benzina che si trova di fronte, attraversano le pompe (che vengono inquadrate al buio e nel tempo di un fotogramma ma in cui riconosciamo chiaramente quelle di Gas, altro famoso dipinto di Hopper) e raggiungono lo svedese crivellandolo a colpi di pistola. Da qui inizia e si dipana a ritroso, attraverso una serie di flashback, tutta la storia di Lunn, ex pugile ossessionato da una donna (Ava Gardner) – come lo svedese di Philip Roth – e da una rapina impunita a cui ha partecipato.
La sceneggiatura, a cui si dice abbiano generosamente contribuito John Huston e Richard Brooks, la fotografia, che coniuga nell’uso della luce l’espressionismo tedesco delle origini di Siodmack al realismo americano dei quadri di Hopper, e la mano sicura della regia fanno di questa pellicola un film importante da vedere ancora oggi, a settant’anni dalla sua uscita. I due protagonisti poi, interpretati da un misurato ma efficace Burt Lancaster e una già fatale seppur giovanissima Ava Gardner, rimangono impressi nella memoria nella loro disillusione e nella loro malinconia, un po’ spaesati e un po’ fuori luogo ma assolutamente definiti e vivi. Ma i personaggi tutti – compresi i minori come l’ispettore Sam Lubinsky (Sam Levene) e l’innamorata Lilly (Virginia Christine) – sono ritratti di volta in volta nella solitudine di una camera d’albergo, nella desolazione di un letto sfatto, negli sguardi che non si incrociano, nella luce fredda che taglia volti e proietta ombre, nelle verità non dette, in un continuo rimando hopperiano che ne sottolinea l’immutata attualità.
Lorenza Govoni