La luce è abbagliante, non ci sono ostacoli all’orizzonte. Lo sguardo si perde su una distesa di terra secca, un deserto indiano che si dice dia origine al sale più bianco del mondo. Sanabhai vive qui, nel mezzo del nulla, e si prende cura di una terra che con lentezza darà i suoi frutti. Lui e molte altre famiglie tornano nel deserto, ogni anno, per mesi e mesi, pronte a mettersi al lavoro con sforzo e tenacia.

Quest’umanità solitaria è protagonista di My name is salt, ultima fatica di Farida Pacha, presentato nella prima serata del festival Human Rights che si svolge in questi giorni alla Cineteca di Bologna: grazie ad uno sguardo delicato, Pacha racconta la vita di una comunità distante e lontana dalla società caotica dei giorni nostri. L’attesa e il duro lavoro caratterizzano le giornate delle famiglie del deserto, che con quel lembo di terra instaurano un rapporto viscerale ed ancestrale: scavano, trovano il fango, vi si immergono, poi calpestano la terra a piccoli passi, le punte dei piedi rivolte all’esterno, muti esecutori di una danza precisa e meticolosa che darà vita al sale tanto ricercato. Un processo lunghissimo portato avanti in un’estremità fuori dal mondo, dove si vive di fatica e sudore, in comunione viscerale con la natura.

E’ questa legame atavico che la regista prova a raccontare: la gestualità e la ritualità del lavoro descrivono una popolazione incredibilmente devota alla terra e ai suoi frutti. Non è utilizzata alcuna voice-over e non vi sono interviste dirette ai protagonisti del film, a cui viene rubata solo qualche parola: My name is salt si iscrive in quella cerchia di documentari che possono a pieno titolo essere definiti “osservativi”. Il canovaccio è scarno e la camera si sofferma sapientemente sugli eventi più semplici e quotidiani, in perenne ascolto. Come in Below sea level di Gianfranco Rosi, anche qui non si esce mai dal deserto, palcoscenico dell’azione e muto protagonista di tutto il film. Farida Pacha lascia da parte le problematiche sociali o la denuncia alle condizioni difficili in cui questa comunità è costretta a vivere; si interroga, invece, sulla pulsione profonda che porta questa gente a ritornare lì ogni anno, in quella terra inospitale e apparentemente avversa all’uomo. Qual’è il senso che trovano tra le saline, nel silenzio, in attesa di raccogliere il sale più bianco del mondo?

My name is salt è un film che richiede allo spettatore pazienza e attenzione. Il viaggio “in ascolto” della regista è quello che possiamo rivivere sullo schermo: scorrono distese di terra sempre uguali, luce accecante, piani sequenza statici e ripetitivi, capaci di evocare la poetica monotonia che questo luogo e i suoi abitanti si portano dietro.

Caterina Sokota