“Ma’..comes a time when a man gets mad.”

Qualche giorno fa, nella sua introduzione ad Alba di gloria (1939), il curatore della retrospettiva “Henry Fonda for president” Alexander Horwath ha messo in guardia il pubblico dalla vulgata che tende a ridurre l’attore a icona hollywoodiana di un’integrità senza macchia, santino evocato solo per ribattere le stesse due o tre note di progressismo democratico da bleeding hearts. Questo non solo per rendere giustizia alla versatilità di Fonda - pienamente in mostra in una selezione che lo vede destreggiarsi magnificamente attraverso una miriade di sfumature interpretative e morali, fra cui non mancano alcuni dei personaggi più inquietanti, ambigui e perfino abietti mai portati su schermo; ma anche come spunto per ridiscutere, notandone complessità e zone d’ombra, proprio quel carattere esemplare che pure resta il fulcro del suo divismo per come si è tramandato nella memoria collettiva.

In fondo è questione di sentimento. A sentire certi discorsi, chi non avesse mai visto un suo film potrebbe immaginarsi una presenza calda e stabile nella sua equanimità, un altro Gregory Peck. Invece Fonda è un interprete tutto emotivo, il cui algido autocontrollo si incrina continuamente di spiragli nervosi, rabbia, sconforto, in una dialettica vibrante che denuncia l’investimento totale nei ruoli prescelti, spesso (come ricorda ancora Horwarth) non esenti da un certo autobiografismo. Fonda non corrisponde mai astrattamente a un’idea o a una causa, ma le incarna con furia bruciante, ossessivamente, tornando a esplorarle da tutti gli angoli. Si pensi al tema dell’esecuzione imminente, rinviata, a volte scongiurata e a volte ineluttabile (da Alba fatale a La parola ai giurati): i biografi lo riconducono a un episodio traumatico dell’adolescenza, quando il padre lo portò quattordicenne ad assistere al linciaggio dell’afroamericano Will Brown durante i moti razziali di Omaha del ‘19. Così, quando il giovane Lincoln ferma la folla inferocita sulle porte del penitenziario, solo lui poteva danzare a quel modo fra calma e rabbia (il calcio violento con cui fa arretrare da solo cento uomini), ironia e indignazione, professionalità e dolcezza.

Proprio nei tre film fordiani in sala in questi giorni, Alba di gloria, Furore (The Grapes of Wrath, 1940) e Il massacro di Fort Apache (Fort Apache, 1948) la doppia natura, istituzionale eppure profondamente emotiva di Fonda si esalta al meglio. Ford non è solo il più importante mitografo del ‘900, ma anche l’artista che meglio di tutti ha scandagliato il confine fra mito e realtà, fra monumentale e umano, fra ideale e pulsione, e in quella sottile linea d’ombra avviene lo sposalizio fra i due. È assolutamente significativo che l’attore avesse sulle prime rifiutato il ruolo di Lincoln, temendo di trovarsi invischiato nel freddo oleografismo di tanta ritrattistica presidenziale. Altrettanto rivelatrice l’argomentazione di Ford: “Credi che sia quel cazzo di presidente? È un giovane e inesperto avvocato di Springfield, Cristo santo”. Non del tutto vero, ma l’omaggio fordiano – nelle mani calde e nervose di Fonda – tocca vertici di straniante poesia, rendendo regolarmente impossibile capire dove finisca il ragazzo di campagna e dove inizi il simbolo.

Meno impeccabile, ma proprio per questo ancora più evidente, l’amalgama delle stesse caratteristiche nel Tom Joad del capolavoro The Grapes of Wrath, “assassino senza colpa” che ricorda per certi versi il personaggio interpretato in Io sono innocente (1937) di Lang, ma che al contrario di quello dovrà fungere da definitivo simbolo di riscossa per l’america di Roosevelt dopo gli anni della Depressione. Il Joad di Fonda è umanissimo, credibile nell’affetto familiare, nella compassione e nella rabbia (giusta ma anche indizio di una natura più feroce); ci pensa Ford, dopo averlo inizialmente tratto di prigione come da un’oscurità gravida di sottintesi simbolici, a farlo nuovamente sparire all’orizzonte, ormai trasformatosi nel “fantasma” della giustizia sociale cantato da Springsteen (The Ghost of Tom Joad, 1995).

Lo stesso percorso compie, stavolta in una luce pessimista e beffarda, anche il viscido colonnello Thursday di Fort Apache, film di tutt’altra fase della carriera del regista, ora brechtianamente intento a sezionare il processo di incubazione del Mito nella più diretta anticipazione del “Print the legend” di Liberty Valance. Fonda è straordinario nei panni di un uomo sprezzante, prigioniero dei propri privilegi di classe e di un malsano sogno di gloria, genio maligno nascosto in bella vista dietro la patina eroica della conquista del West. L’ennesima prova perfetta di un uomo (tutt’altro che) tranquillo.