Mai come in questi anni alcune sparute voci della politica e della società civile hanno cercato di avviare una riflessione sul “senso del carcere”, denunciando le condizioni spesso indecorose di molti istituti di pena e schierandosi dalla parte dei detenuti costretti a sopravvivere al di là della decenza. Non di rado sfugge a molti che la reclusione, in quanto privazione della libertà dell’individuo, è sì una pena, ma anche l’occasione per il carcerato di entrare in un percorso di riabilitazione per reintegrarsi nella società. Nella stagione in cui sono tornate di moda la giustizia privata e la sfiducia nel sistema giudiziario e sempre di più latitano valori quali il rispetto del prossimo e la tutela dei più deboli, Il clan dei ricciai - presentato al Biografilm 2018 - arriva come un’inattesa e necessaria rivendicazione di dignità. Quelli citati nel titolo, infatti, sono alcuni ex carcerati cagliaritani che, scontate le rispettive pene, si sono ricollocati nel mondo del lavoro diventando pescatori di ricci nell’attività brillantemente coordinata da Gesuino Banchero, anch’egli già galeotto.

Accanto al titolo scelto da Pietro Mereu, è indicativo segnalare che Banchero si riferisce ai suoi parlando di “una sorta di popolo” che ha trovato nel mare un ufficio di collocamento, votandosi ad un lavoro appagante ma faticoso. Ancora una volta – e non è mai banale né sottolinearlo né averne piena consapevolezza – è il lavoro ad essere considerato fondamentale viatico per garantire le basi di una ripartenza, che possa peraltro stagliarsi come modello di una concreta solidarietà laddove non arrivano lo Stato e i limiti di un sistema “incacrenito” che “cronicizza il crimine”. Siamo, d’altronde, in Sardegna, terra più dimenticata che periferica: eppure difficilmente sentirete dai protagonisti intervistati parole negative nei confronti della madre terra, essendo capaci di ammettere la nostalgia che gli attanaglia una mezza giornata lontani dal quartiere di Sant’Elia o quando rievocano la propria urbana educazione criminale confrontandola con l’attuale  criminalità minorile.

C’è piuttosto diffidenza verso chi viene a visitare il vecchio carcere di Buoncammino, che per decenni è stata la loro casa ed ora appare ai loro occhi come un incomprensibile monumento. Sono elementi che dimostrano quanto questo documentario dalla struttura tutto sommato classica abbia la sua ragione d’esistere nel racconto autobiografico delle vite tormentate di facce malamente invecchiate anzitempo, che portano sul corpo (e in bocca) i segni del loro inferno personale e, nonostante siano più o meno riusciti a ricominciare, riconoscono l’un l’altro un dolore impossibile da dimenticare.