Anno 1976, sono passati ben quindici anni da Accattone, esordio di Pier Paolo Pasolini al cinema. Con Brutti, sporchi e cattivi, Ettore Scola riporta il mondo delle borgate romane sul grande schermo, discostandosi dal modo in cui le dipinse l’intellettuale friulano. Accattone è un film privo di attori professionisti, la messa in scena è realistica, povera e il protagonista, l’esordiente Franco Citti, seppur incarnando un protettore, diviene figura cristica. Scola invece si serve di un solo grande attore protagonista, Nino Manfredi, sfrutta gli stilemi propri della commedia restituendo l’immagine di un sottoproletariato senza possibilità di redenzione, dipingendo ambienti negativi sotto tutti i punti di vista, perfettamente in linea con l’abiura della trilogia della vita e il cambiamento di visione del poeta sui borgatari che tanto aveva amato anni addietro:

[…] I giovani e i ragazzi del sottoproletariato romano – che son poi quelli che io ho proiettato nella vecchia e resistente Napoli, e poi nei paesi poveri del Terzo Mondo – se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano […]”

[“Abiura della trilogia della vita”, Lettere Luterane, Pasolini, 1975]

Pasolini fu parte integrante del progetto, il suo “lessico vivente”, Sergio Citti, fu consulente ai dialoghi e, assieme a Scola, pianificò un’idea per una prefazione al film. Ebbero però idee discordanti sul finale.

Siamo andati a cercare alcune testimonianze.

“Gli emarginati sono i più influenzati dal consumo borghese, i più indifesi e quindi non si vede come potrebbero essere buoni. I poveri senza speranza sono giustamente incattiviti. Il povero buono quasi non esiste, è una favola che noi intellettuali borghesi ci raccontiamo a vicenda. Eppure letteratura e cinema sono fermi su questa posizione: dipingere il borgataro come un essere buono, proprio perché letterati e cineasti sono borghesi, cattolici o marxisti, e così credono di salvarsi l’anima. Anch’io, in passato, ho svolto questa operazione istintiva, che ormai mi è impossibile. In alcuni dei miei film ho fatto come gli intellettuali che distribuiscono ai poveri, agli emarginati, simpatia e paternalismo. Bisogna invece avere il coraggio di affermare, anzitutto a noi stessi, che i sottoproletari, abitando in una baracca con i topi, possono essere cattivi, anzi lo sono. Esistono gli incesti, i padri snaturati, i mariti immorali: la distribuzione asimmetrica della ricchezza produce tali conseguenze, e sarebbe da parte nostra una falsità nasconderlo, nasconderci che ciò è un effetto della struttura ingiusta della società”.

[Sergio Frosali, “I poveri sono cattivi”, La Nazione, 30 dicembre 1975]

 

“Pasolini aveva trovato nelle bidonvilles una verità non riscontrabile altrove. Gli anni del cosiddetto benessere della civiltà dei consumi hanno cambiato questa verità, perché si è, nel frattempo, prodotto quel ‘genocidio culturale’ che lo scrittore aveva denunciato sulle pagine del ‘Corriere della sera’. Un genocidio che si stava manifestando a tutti i livelli. I soli messaggi, che questa gente completamente emarginata dalla società riceve da essa, sono messaggi di consumo del superfluo, rivolti a individui che, invece, non hanno neppure il necessario per vivere. Il prezzo di questo superfluo, che per la borghesia è un prezzo di mercato, diventa per loro un prezzo troppo elevato e irraggiungibile, se non con il furto, la prostituzione, l’omicidio. Così la popolazione delle baracche è costituita da ladri, prostitute e assassini. Oltre che a questo livello, il genocidio si è prodotto anche livello psicologico e a livello della tradizione, della cultura. Questi giovani che Pasolini aveva ammirato per la loro intelligenza popolare, il loro spirito, la loro vivacità, ora erano diventati opachi, muti, cupi, in fuga. Erano giovani che tendevano soltanto a diventare ladri, e soprattutto, cominciavano a giudicare con i concetti e i metodi del giudizio borghese, dei pregiudizi della cosiddetta ‘gente per bene’”.

[Intervista a Ettore Scola, in Jean Gili, Le cinéma italien]

 

“Io volevo fare un film sui prezzi. E questo non era stato capito, per esempio. Era l’epoca del consumo. Tutto (l’aveva detto Pier Paolo Pasolini) era omologato: gusti, tradizioni, culture; non erano stati omologati soltanto i prezzi. In ogni ceto, in ogni classe si pagavano prezzi diversi. I bisogni nascono dai desideri, il desiderio diventa bisogno, ma quelli erano bisogni che appartenevano a una sola classe: quella borghese. Prima ogni classe aveva i suoi specifici desideri e i suoi specifici bisogni. Invece erano diventati tutti bisogni comuni. Il borghese li poteva pagare al prezzo corrente di mercato: una motocicletta per il figlio del dentista costava un milione, per il borgataro il furto, la rapina, qualche volta la morte. Il discorso che volevo fare sulla differenza dei prezzi forse non era abbastanza chiaro e non fu subito riconosciuto. Lo aveva riconosciuto invece immediatamente Pier Paolo Pasolini […] ci eravamo visti da Rosati a Piazza del Popolo, gli avevo dato quella mia sceneggiatura e gli avevo detto che dieci anni dopo Accattone volevo rappresentare in un registro grottesco l’avanzata di quella omologazione culturale che egli aveva denunciato dieci anni prima. E, come tanti libri hanno una prefazione, gli avevo detto che mi sarebbe piaciuto avere nel mio film una sua prefazione filmata. E lui aveva accettato. […] Stavo facendo i provini prima di girare il film, alla gente di borgata e Pier Paolo arrivò con due ragazzi (uno era Ettore Garofalo e dell’altro mi sfugge il nome, ma c’è anche lui in Brutti, sporchi e cattivi) e mi disse ‘guarda questi due ragazzi, fagli il provino perché sono bravissimi’. La borgata era in costruzione, avevo scelto una collina (il monte Ciocci) perché mi piaceva che il cupolone di San Pietro incombesse sempre, durante tutto il film, come alto ammonimento sui valori morali, sulla bontà dei poveri, su ‘beati i poveri perché sarà loro il regno dei cieli..’. Quelle baracche in costruzione piacquero a Pier Paolo e disse: sì, potremmo fare la prefazione qui, appaio io tra le baracche deserte, vestito tutto di bianco e comincio a parlare, a dire cosa è accaduto dieci anni dopo Accattone, in queste baracche. Poi, a poco a poco, cominciano a entrare i personaggi, i baraccati del tuo film, io scompaio e il film comincia. […] Questa scena non c’è mai stata. Mentre giravo il pranzo dei baraccati a Torvaianica, a pochi metri, uccidevano Pier Paolo. Quel giorno non girammo, con tutta la troupe andai nel luogo dove era avvenuto l’omicidio.

[Ettore Scola : il volto amaro della commedia all’italiana, a cura di Giulio Malia]

 

Pasolini suggeriva un finale in una forma ancora più apocalittica e integrale, con la distruzione totale di quel formicaio umano, che avrebbe plasticamente rappresentato l’effetto della scomparsa dei sottoproletari ormai devastati definitivamente, eppure protesi verso il mito del consumo che alla fine consumava loro stessi. Per Scola, invece, la fine del racconto vuole essere identica all’inizio, a suggellare una situazione di degrado morale che non è suscettibile di cambiamento e di evoluzione.

[Ettore Scola un umanista nel cinema italiano, Ennio Bispuri]

 

a cura di Stefano Careddu