Ancora in sala nei giorni dell’Epifania, Paterson di Jim Jarmusch si dimostra sempre più una delle vette della sua cinematografia, dimostrando come la fase recente di questo autore – sempre più malinconico, dolce e al contempo appassionato – sia da prendere tremendamente sul serio.
A un certo punto di Paterson compaiono i due giovanissimi attori di Moonrise Kingdom (il più bel film di Wes Anderson), che – ormai cresciuti fino ad essere poco riconoscibili – parlano in bus dell’anarchico italiano Gaetano Bresci, uno dei tanti personaggi storici transitati nella città di Paterson, New Jersey. Già il fatto che in un film americano si parli di Bresci, dispone al sorriso. Poi, che ne parlino i due protagonisti di una delle poche pellicole “politiche” di Anderson (una sorta di Prima della rivoluzione puberale e giocosa), ce li rende ancora più simpatici, scoprendoli maturati in una sorta di spin off ideale di quel film, e precipitati quasi per caso nel mondo di Jarmusch.
Non è una sorpresa. Pur amato nella sua unicità, Jarmusch ha da sempre costruito ponti con altri registi e altre poetiche, fino ad aver costruito una sorta di comunità cinefila e musicofila, di cui facevano parte anche Aki Kaurismaki, Tom Di Cillo, Roberto Benigni e molti altri lunatici e lunari. Con Wes Anderson, Jarmusch ha poco a che spartire: difficilmente ce lo vediamo a fare spot per Prada e diventare una star del design vintage. Eppure, proprio questa allusione trasversale e amichevole ci spiega il metodo jarmuschiano: un collezionista di forme e non un citazionista; un innamorato delle altrui opere e non un imitatore; un appassionato di cataloghi e non un arbitro del gusto. Basti pensare, per rimanere all’analisi comparata con Wes Anderson, a come Jarmusch racconta la creatività di Laura (vedere foto in testa all’articolo). Si tratta di una intuizione visiva che sarebbe piaciuta a Anderson, ma nelle mani di Jarmusch diventa totalmente al servizio del personaggio, donna al tempo stesso semplice e complicata, che non riesce letteralmente a contenere una creatività che infatti esonda per tutta la casa, e slitta dalla pittura alla pasticceria, dalla decorazione alla musica country.
Altre volte si tratta di lampi: alcune passeggiate di Adam Driver, col cestino del pranzo in mano, mentre cammina sullo sfondo di edifici in mattone, depositi di bus e di altri luoghi della periferia, ricordano Eraserhead (senza averne, peraltro, ulteriori caratteristiche). La coincidenza pare bizzarra, ma quando ci si accorge che il direttore della fotografia dell’esordio di Lynch è lo stesso di Paterson – il grande maestro Frederick Elmes – le cose sembrano trovare un ordine.
Tuttavia, chi è Paterson? Gli amanti della fantascienza, durante il film, pensano talvolta di trovarsi dentro una illusione spazio-temporale, e fantasticano sul fatto che Paterson potrebbe essere un Truman Show del cinema indie, dentro una “dark city” molto più pacifica, luminosa e quotidiana di quelle distopiche narrate in tanta science fiction degli ultimi decenni. I gemelli che punteggiano la storia, in effetti, dispongono a sospettare del narratore. In verità, Paterson si chiama come la città in cui vive perché, come personaggio, la contiene tutta, e perché la sua vita qualsiasi viene comunque toccata dalla stessa grazia e dalla medesima propensione all’arte dei gesti quotidiani che sembra attraversare le figure storiche che ne sono originarie: William Carlos Williams per primo, ovviamente, ma anche Lou Costello con i suoi nonsense, Allen Ginsberg con i suoi versi, il pugile Hurricane Carter con i suoi ganci.
Dentro Paterson, insomma, c’è un microcosmo in continua espansione, un dialogo aperto con schegge culturali di ogni tipo: la stessa Golshifteh Farahani in fondo è un segno vivente del cinema iraniano e, in seguito, dell’autorialismo francese, ma viene deterritorializzata e continuamente accostata ad altri universi e tradizioni culturali, come quando i due si recano al cinema a vedere L’isola delle anime perdute (1932), ed emerge una inquietante somiglianza tra lei e la donna pantera (interpretata da Kathleen Burke, attrice di pochi film degli anni Trenta e incredibilmente somigliante a Golshifteh Farahani).
E poi, grazie a Paterson e al suo taccuino, possiamo goderci anche i versi di uno dei principali poeti americani contemporanei, Ron Padgett (le parole sono infatti le sue, tranne la poesia della ragazzina, scritta di suo pugno da Jarmusch). Sette giorni a Paterson – e due ore dentro Paterson – fanno venire voglia di non andarsene.
Roy Menarini