Silence prosegue la sua vita in prima visione, e offre ai nostri collaboratori la possibilità di leggere da vari punti di vista quest’opera personale e profonda di Martin Scorsese, al centro di un dibattito critico e filosofico di grande spessore.
Nel silenzio, l’unico suono udibile è la nostra voce, e ad essa corrisponde la voce di Dio. Silence approda finalmente sugli schermi e porta con sé un bagaglio di riflessioni e analisi critiche di non poco peso. Il film che Scorsese sognava di fare da trent’anni, tanti quanti quelli trascorsi dall’uscita nelle sale di L’ultima tentazione di Cristo, può apparire a livello superficiale come un’opera di rottura, così diversa dalle sarabande ipertrofiche di voci e suoni a cui il regista ci ha abituato da tempo, ma nei vari livelli di complessità del film si può intravedere un fil rouge, l’ipotetica fine di un percorso di ricerca spirituale che attraversa tutta la filmografia scorsesiana.
Se prima la perdita e il ritrovamento della fede potevano avvenire nei luoghi più violenti e improbabili del mondo, tra le corde di un ring o a bordo di un’ambulanza, come accadeva a Nicolas Cage nell’ingiustamente dimenticato Al di là della vita, il dramma dei preti apostati in Giappone permette al regista di fare un viaggio indietro nel tempo di carattere esplicitamente religioso: una tragedia dimenticata, avvenuta all’apice dell’espansionismo cristiano nel mondo, il cui messaggio ultimo, agli occhi del regista, è diretto anche e soprattutto al presente.
A conti fatti, non vi è modo migliore per mettere in questione il mistero della volontà divina che mettendola a confronto con il rigore e il pragmatismo della cultura giapponese, in cui la spiritualità si identifica con i fenomeni naturali, quindi con fatti comprensibili dall’uomo che non lasciano alcun margine di manovra all’incertezza. Fin dalle prime sequenze del film, la natura si schianta contro i giovani gesuiti senza alcuna possibilità di resistenza: nebbia, fango, fiamme e maree avvolgono e tormentano i corpi dei protagonisti incessantemente, a simboleggiare una continua aggressione del Giappone contro i suoi ospiti indesiderati, costretti a piegarsi al dominio della Natura o a morire per sua mano.
La vicenda umana di Padre Rodrigues, ultimo martire del cinema di Scorsese, assume tutti i connotati di una Via Crucis avanti nel tempo, ma il fine ultimo delle sue sofferenze non è più l’ascensione alla santità, bensì l’accettazione dei propri limiti umani e dell’impossibilità di avere una risposta concreta ai propri dilemmi spirituali. La bellezza del mistero di Dio viene esaltata mettendo in luce i difetti dell’espansionismo evangelico: l’imposizione di dogmi e dottrine non corrisponde a una loro vera comprensione, ed è compito del singolo trasmettere alle masse il loro vero significato.
È grazie all’incontro con la credulità popolare giapponese che Rodrigues smette di identificarsi sprezzantemente con Gesù Cristo e prende coscienza dei suoi limiti, credulità rappresentata al meglio dal personaggio di Kichijiro, personaggio tanto eccessivo quanto cruciale nel determinare la fallacia dell’imposizione della fede e, al contempo, la necessità comune a ogni uomo di credere in qualcosa più grande di sé.
In un mondo governato dall’uniformità di pensiero, dove le icone vengono svuotate di contenuto ma sono al contempo viste come minacce da eliminare, qual è quindi la funzione ultima del silenzio che dà titolo al film? Anche in questo caso la risposta è duplice: il silenzio è l’arma di autodifesa più estrema contro la persecuzione e l’oscurantismo, ma è anche il luogo definitivo di ricongiungimento con la propria spiritualità, un rifugio sicuro dove l’uomo può parlare col divino e, di conseguenza, farsi divino.
Silence rappresenta un grande traguardo nella cinematografia di Scorsese, un’opera maestosa che si prende il suo tempo per essere pienamente compresa, una parabola cristiana che si eleva a discorso universale sui limiti della religione e sull’importanza della fede.
Francesco Cacciatore