La produzione fotografica di Stanley Kubrick sta ricevendo un interesse sempre maggiore da parte della critica: diverse mostre, tra cui quella a Trieste al Magazzino delle Idee da poco conclusa, e un importante catalogo edito da Taschen celebrano le fotografie scattate dal giovane Kubrick, principalmente a New York dal 1945 al 1950, durante gli anni di lavoro per la rivista Look. Già in passato erano state apprezzati singoli scatti di questo periodo, come la celebre prima foto venduta alla rivista, “April, 1945”, in cui un inconsolabile giornalaio è circondato da titoli che annunciano la morte di Franklin D. Roosevelt.
Il rinnovato interesse per questa prima fase della carriera del regista, tuttavia, ha messo in luce il valore artistico globale dell’opera fotografica di Kubrick, ben oltre l’episodicità di singoli scatti e l’anticipazione di diversi temi e tecniche stilistiche che saranno consolidate nei film della maturità artistica. Le fotografie di Kubrick meritano considerazione artistica a pieno titolo e, non semplicemente, come un’anticipazione di capolavori a venire.
Le fotografie del foto-reporter diciassettenne costituiscono una narrazione iconica delle “metropoli e della vita dello spirito”, per citare il famoso saggio del sociologo Georg Simmel del 1903, la cui riflessione sulla solitudine urbana nel mezzo di migliaia di occasioni di incontro e stimoli sembra essere anche il punto di partenza dell’indagine di Kubrick. Come il sociologo, il giovane fotografo esplora come l’individuo cerchi di mantenere l’indipendenza della propria esistenza nel flusso della vita urbana contro le pressioni sociali, industriali, lavorative e anche della cultura popolare, che tendono all’omologazione e omogeneizzazione.
È il caso degli scatti nei negozi da 5 o 10 cents dove le masse di consumatori corrispondono a masse di oggetti economici di consumo, nelle aule e nei laboratori della Columbia University dove Kubrick coglie centinaia di alunni agli esami scritti o a lezione, nelle strade di New York con le reazioni affascinate e sognanti dei passanti verso la macchina artistica della pubblicità e dell’industria dello spettacolo.
Come un flâneur, Kubrick sospende il giudizio su quello che osserva, cercando di capire le condizioni di vita della metropoli del secondo dopoguerra più che di lamentarne o perdonarne gli eccessi, che ne affascinano l’obiettivo. Dalla serie “Vita e Amore in Metropolitana” a quella sul Circo, dalle condizioni di vita di un bambino lustrascarpe ai ritratti di celebrità già affermate quali il compositore Leonard Bernstein, il pugile Rocky Graziano e il divo Montgomery Clift,
Kubrick osserva scene di divertimento e di sfruttamento, di violenza e di amore, di emancipazione femminile e di repressione nei ruoli di genere che la società si aspettava per quegli anni. L’immagine di una paternità fittizia di Montgomery Clift con un bambino in braccio, circondato da una famiglia non sua; l’omaggio al self-made man Dale Canegie ritratto mentre tiene i suoi corsi di sviluppo personale; le foto mai pubblicate, come preludio all’oblio maccartista, di Jules Dassin sul set de La città nuda e di Zero Mostel ad una festa di Bernstein: Kubrick illustra visivamente miti, istituzioni, credenze e superstizioni americane che i diversi soggetti del suo obiettivo cercano di reinterpretare senza rimanere schiacciati.
Come nella Metropoli di Simmel, così in quella di Kubrick emerge la necessità di eccentricità: sia questa mostrata dal bel mondo alle corse di cavalli o dai circensi che montano il loro spettacolo, dalle starlettes dello spettacolo o dai pugili sul ring, l’eccentricità diventa, sempre per citare il sociologo tedesco, non tanto un contenuto quanto “apparire diversi, . . . distinguersi e . . . farsi notare – il che in definitiva rimane per molti l’unico mezzo per salvare, attraverso l’attenzione degli altri, una qualche stima di sé e la coscienza di occupare un posto”.