C’è una delle più belle scene della filmografia di Alice Rohrwacher che ci può essere d’aiuto. Siamo a metà di Lazzaro Felice e per la prima volta vediamo delle inquadrature aeree, a seguire il protagonista guarda in alto, si spaventa, perde l’equilibrio e cade da un dirupo. Ancora inquadrature aeree su dei contadini – quelli della famiglia allargata di mezzadri dell’Inviolata, abitanti di un luogo che non esiste, vittime di una messa in scena totalmente fuori dal tempo – questi guardano in camera mentre uno lancia verso la macchina da presa una corda, quasi come a voler colpirla. Capiamo che l’inquadratura è diegetica, enunciazione di un elicottero della polizia, oggetto/soggetto alieno e demoniaco per chi ancora crede di vivere in un’epoca feudale preindustriale, arrivato per svelare l’arcano e mettere in crisi la finzione.
In questo passaggio Alice Rohrwacher trovava nei rarissimi sguardi aerei lo svelarsi inquieto del mondo e quindi l’avverarsi – secondo le discipline della geografia – dell’incontro tra ordinamento e comprensione del territorio, di un’ideale visione in cui i “dove” corrispondono ai “come” del mondo e quindi dell’Italia (e quindi del cinema italiano idealmente risvegliato da un sonno finzionale e anacronistico).
Ora La chimera – il suo ultimo film – compie una ricerca opposta. Queste ragioni cartografiche (per usare Franco Farinelli) e queste mappature le trova sottoterra, ribaltandone la visione, abbandonando il cielo per l’oscurità, lo sguardo aereo per l’immersione sotterranea, la ricerca della verità per la ricerca della storia di un’Italia relitta.
La chimera arriva da lontano, come il suo protagonista, straniero in terra straniera, esploratore per eccellenza. Con lui, attorno a lui, un gruppo di tombaroli scapestrati viaggia alla ricerca di preziosi corredi funebri di sepolture etrusche che giacciono sotto una terra ancora agreste ma già lanciata verso l’industrializzazione tra fabbriche e centrali elettriche.
Tanto quanto Arthur, il protagonista, che possiede il raro potere di percepire la “ricchezza” sotto i propri piedi attraverso un procedimento puramente istintivo e a-cronologico, anche La chimera indaga l’Italia con l’archeologia, affrontandola come scienza delle rovine, per come la intende Foucault, ovvero come un gioco di genealogie contro ogni ricerca di origine, scoperta delle condizioni di possibilità di un dato discorso, piuttosto che della sua evoluzione nel tempo.
I tombaroli di Alice Rohrwacher cercano l’Etruria e non l’Italia, vogliono gli oggetti, i soldi, il riscatto, eppure pedinandoli il film scava gli strati, non alla ricerca di linee temporali, ma dei punti di insorgenza. Non l’origine, ma la nascita delle condizioni. Non la cronologia, ma il “tempo profondo”. In questo senso l’archeologia sembra una futurologia, una ricerca dei futuri perduti, di quelli non scelti. La cultura etrusca come società a genealogia femminile, matriarcale… ipotesi contraria: sottoterra e sottosopra.
Perché sottoterra è sottosopra in questo ideale (chimerico, sia in quanto ibrido sia in quanto utopico e irraggiungibile) cinema senza forma, sformato, che intreccia sogno e realtà, ricordo e immaginazione. Un film ingannevole e ingannato, pieno di doppi fondi, di spazi segreti, anticamere dove nascondere figli, reperti, se stessi… Un film di profanatori e profanati, pieno di oggetti (sugli oggetti) antichi e moderni, esposti e rinchiusi, scoperti e nascosti, esibiti e occultati.
La terra parla, ma anche la ceramica, l’argilla e la plastica, soprattutto quando sono piene della storia, quella non cronologica, non lineare, quella con la s minuscola: quella di nessuno, ma anche di tutti.