Non facile il rapporto tra la critica e Julien Duvivier, come dimostra l'antologia che dedichiamo a "Panique", per il percorso su Simenon e il cinema proposto da Cinema Ritrovato al cinema.
Uscendo da un'esperienza americana positiva (successo commerciale e artistico, a parte i conflitti minori per due sketch incompiuti o tagliati), nel cimentarsi con un autore profondamente francese come Simenon Duvivier si muove diversamente: Panique rappresenta una rottura sia con i suoi film americani sia con quelli realizzati in Francia prima della guerra. Una novità già nella scelta dei temi: delazione, xenofobia, razzismo. Panique è un dramma sulla diversità che una società non vuole accettare: l'individuo che non parla, di cui non si sa nulla, viene rigettato come chi viene da fuori (gitani, saltimbanchi). Il linciaggio e l'assassinio sono l'esorcismo delle paure della società: la scena terribile in cui Mr. Hire (Michel Simon) viene fatto oggetto di una grandinata di pietre al grido “a morte l'assassino!” richiama le peggiori lapidazioni dei primi cristiani di cui i romani rifiutavano l'esistenza.
La stampa che ha unanimemente rifiutato il film nel dicembre 1946 non ne aveva probabilmente visto che la disperazione e la negatività, difficilmente sopportabili all'indomani della guerra e dopo Le corbeau di Henri-Georges Clouzot (1943), altro film sulla delazione. Le qualità evidenti del film, quali si possono percepire oggi, provano che la ricezione del film è stata totalmente deformata, si è fermata solo alle apparenze, per riprendere un frase del signor Hire (“gli altri non giudicano che sulla base delle apparenze”). In questa costruzione cinematografica esemplare grazie ad una regia perfetta, c'era materia per una riflessione su come un regista possa riuscire a toccare e far sentire in profondità ciò che certi individui nascondono dentro, l'infamia del gruppo di persone che condannano a morte il signor Hire. I mezzi utilizzati in Panique sono semplici (quelli della cinematografia moderna): viene privilegiato il lavoro sugli attori. Non ci sono più effetti di stile, espressività ricercate. L'espressionismo così evidente in La charrette fantôme è praticamente scomparso sette anni dopo. Se ne trovano ancora delle tracce nelle inquadrature oblique di La fête à Henriette ma in chiave quasi autoironica in un film che è a modo suo un'antologia. In un film come Panique, dove il lavoro viene svolto in profondità, in un corpo a corpo con i personaggi, ci allontaniamo da un'epoca (il muto) in cui tutto un insieme di elementi era utilizzato per lavorare sulla bidimensionalità dell'immagine allo scopo di aggiungervi altri significati. In Panique tutto emerge dalle situazioni e dai personaggi, mentre in passato il lavoro del cineasta era anche un commento (nel senso più fisico) sull'immagine.
Hubert Niogret, Julien Duvivier, Editrice Il Castoro, Milano 1996.
Dei registi francesi del periodo d'oro Duvivier è (con Renoir, che in più è un poeta) il mio preferito. [… ] Duvivier era diabolicamente abile. Aveva un ottimo senso del ritmo, della "colonna vertebrale", del film che "sta in piedi". Era molto bravo a descrivere con grande precisione e naturalezza gli ambienti. Credo che, a partire da La bandera, egli abbia inventato un sistema tutto suo di filmare i luoghi dell'azione: vediamo sempre i personaggi arrivare direttamente nella scenografia, che non è mai ripresa senza di loro e che si percepisce sempre nella sua totalità. Riuscire ad ottenere questo è straordinario. Su Duvivier si sono dette delle gran stupidaggini, del tipo: “non è un Autore”, “non ha un suo mondo”... Il suo 'mondo', la sua concezione della vita emergono chiaramente in film come Panique (in cui ci sono cose stupende) , Voici le temps des assassins: la nostra è un'epoca di assassini, ecco la sua filosofia. E lui non faceva dell'ironia (come me), era davvero pessimista. Evidentemente non aveva una visione poetica, poiché il suo modo di vedere le cose rifiutava la poesia. Ma questa non è una ragione per decidere che non è un "Autore". Per me è un autore che non si è mai proclamato tale.
Claude Chabrol, Julien Duvivier, Editrice Il Castoro, Milano 1996.
Dopo gli anni Trenta, Julien Duvivier girerà un film internazionale, quattro film negli Stati Uniti, uno in Gran Bretagna e diciassette in Francia nel corso di ventitré anni.[...] La produzione di questo periodo è completamente diversa (come genere, stile, qualità) [...]: il realismo nero, il populismo, divengono il solco centrale del suo cinema, ed è su questo filone che si innestano le sue opere migliori. Panique(1946) propone senz'altro il caso più tipico e interessante. Perché è il film del ritorno di Duvivier in Francia. Perché è un nuovo adattamento da Simenon (tratto dal romanzo Les fiançailles de M. Hire) e può quindi essere confrontato con La tête d'un homme: si tratta del resto anche qui della testa di un uomo, ma la conclusione è diversa. Nel Maigret del 1930 un criminale riusciva ad incolpare un innocente, ma il commissario riusciva a scoprirlo. In Panique un assassino sfrutta la sua amante per deviare i sospetti su un innocente, la polizia ha la possibilità di scoprire la verità ma la folla, i vicini, decidono di linciare il sospettato, causandone la morte. Con questo film Duvivier (che di nuovo lavora alla sceneggiatura con Charles Spaak) porta a termine quel grande cambiamento già evidente in L'homme du jour: il popolo di questo nuovo populismo non è più la comunità fraterna di gente modesta che egli voleva raccontare in La belle équipe, è invece una massa ottusa spinta solo da reazioni istintive di paura dell'Altro, di violenza collettiva e impersonale – quindi vile – contro la Diversità. Questo tipo di populismo che rasenta l'anti-popolare innesca in Duvivier un nuovo pessimismo che si andrà accentuando in seguito. Duvivier lavora a questa sua 'opera in nero' restando fedele alle sue luci espressioniste, alle sue inquadrature-choc; il suo virtuosismo (superba la direzione degli attori con un Michel Simon impressionante) si rivela al solito efficace anche se commuove meno.
All'uscita del film, la reazione della critica dà inizio al processo di demonizzazione che andrà svolgendosi per una quindicina d'anni. Sentite qui: “Organetti da strada e squallidi alberghi: il cinema francese non vuole proprio liberarsi dal maleficio realista” (Louis Chauvet, “Le Figaro”, 19/1/1947). “Panique è un film falso e ignobile che si diletta della bassezza, e fa rivoltare lo stomaco... Se Duvivier è tornato dall'America per mettere le sue capacità tecniche a servizio di opere di questo tipo poteva anche rimanersene là” (Paul Gaillard, “L'Humanité”, 17/1/1947). “Panique resta un film sulla malavita, con tutti quei luoghi comuni che lo rendono terribilmente datato” scrive Georges Sadoul (“Lettres Françaises”, 24/1/1947). Sadoul se la prende soprattutto con Charles Spaak, come del resto anche George Charensol che chiede allo sceneggiatore di prendere coscienza del fatto che “il cinema d'oggi non è più quello degli antichi successi, è più sottile, più autentico e meno romanzato” (“Nouvelles Littéraires”, 16/1/1947). Jean Fayard nota (“Opera”, 22/1/1947) “che in tutte le scene populiste si respira un certo che di vecchio”. Queste osservazioni meritano ovviamente di essere prese in considerazione perché testimoniano l'evoluzione delle sensibilità, e forse Duvivier ne aveva preso coscienza. Con Panique Duvivier cerca di riprendere il suo cinema populista là dove lo aveva lasciato. Ma il cinema ed il pubblico avevano intanto vissuto altri avvenimenti e affrontato altre realtà.
Pierre Billard, Julien Duvivier, Editrice Il Castoro, Milano 1996.
Trasformando i malfattori del romanzo nei cospiratori seducenti e senza cuore interpretati da Romance e Bernard - attrice che porterà avanti una carriera pluridecennale come cattiva ragazza, sale garce, femme fatale, donna caduta - Duvivier e Spaak rivelano un debito consistente verso il realismo poetico [...]. Sebbene i commentatori abbiano spesso notato le affinità tra Panique e Le jour se lève di Carné, il film di Duvivier guarda ancora più intensamente ad un'altra delle opere di riferimento del realismo poetico, Il porto delle nebbie di Carné. Sia questo film che Panique ostentano l'artifizio della ricostruzione in studio. Entrambi affidano a Simon il ruolo di un outsider barbuto, casalingo e cinico con un nome straniero (Zabel in Carné, Hirovitch in Duvivier), ossessionato da una donna più giovane [...] Duvivier fu liquidato dai registi della nouvelle vague, in particolare da Jean-Luc Godard e Jacques Rivette, per quella che consideravano la sua prolifica insipidezza, la sua mancanza di stile e di personalità individuale. Anche i suoi recenti difensori hanno fatto ricorso a termini ambigui come 'demi-auteur' o 'impure auteur' per descrivere questo regista con la mente sempre concentrata sul suo progetto successivo e la cui vasta produzione spazia in innumerevoli generi diversi. Ma sicuramente Panique - che Duvivier considerava, e a ragione, il suo film migliore, anche se la critica lo aveva ampiamente disprezzato - testimonia una visione autoriale di vecchia data, espressa già chiaramente in film come David Golder (1931), La bandera (1935), e La belle équipe (con il suo finale originale, ovviamente), e qui fortemente intensificata. Inoltre, il complesso dispiegamento di ripetizioni e sdoppiamenti che ricorrono nel film e gli appariscenti movimenti di macchina - con un'abbondanza di riprese con la gru - contraddicono la vulgata che vuole Duvivier maestro del montaggio invisibile e delle immagini anonime. [...] Dai semplici stratagemmi visivi [...] fino all'elaborata struttura basata su motivi ricorrenti, Panique mostra una grande autorità formale.
James Quandt, Panique: Panick attack, The Criterion Collection, 2018.