Il Bambino che scoprì il mondo (O Menino e o mundo, Brasile, 2013) è il primo film d’animazione distribuito dalla Cineteca di Bologna e sarà proiettato al Cinema Lumière a partire da venerdì 23 ottobre. Alê Abreu, regista, sceneggiatore e disegnatore brasiliano al secondo lungometraggio d’animazione (dopo Garoto Cosmico del 2008), traduce in immagini animate la storia di un bambino che nasce e trascorre il suo tempo felice e a stretto contatto con la natura. Un giorno però il padre parte per la città. La mancanza del genitore si fa ingombrante, così questo piccolo bambino con la maglietta a righe rosse e bianche decide anch’esso di partire, guidato dalla melodia con cui il padre era solito deliziarlo. Questa melodia, una volta uscita dallo strumento prende forma e colore (non uno a caso, ma il calore e la vitalità che contraddistinguono l’arancione), viene catturata dal bambino, diventa simbolo e presenza paterna. Si porta appresso una valigia pesante, molto più grande di lui che riempie con una foto di famiglia. Il piccolo comincia un viaggio che lo porterà (come suggerisce il titolo) a conoscere il mondo nei suoi colori accesi, ma anche nei suoi toni bui.

L’autore brasiliano mescola diverse tecniche di disegno e colore (pastelli a olio, matite colorate, pennarelli, penne a sfera e collage), cerca di operare una messa in scena tesa a riprodurre in un certo qual modo i meccanismi cerebrali dei bambini, la cui immaginazione non si pone limiti di veridicità o possibilità. Il tratto è minimale e imprime su uno sfondo prevalentemente bianco una pioggia di colori accesi la quale, assieme a musiche e suoni naturali che si fanno vere e proprie melodie, crea un trionfo, una festa tra tutte le creature e gli elementi che popolano il pianeta.

Ma una totale visione e rappresentazione del mondo in questi termini sarebbe oltremodo ottimista e falsa, anche per un film d’animazione che si rivolge principalmente ai bambini, ma che in realtà va oltre e crea evidenti spunti per una riflessione più adulta. Il viaggio del bambino è un graduale passaggio dal mondo nel quale è nato, un cosmo colorato, incontaminato, divertente e amico, a quello industrializzato e artificiale. Nel primo sembra non esistere pericolo, i sassi, i fili d’erba e ogni animale sono mezzi per scoprire e crescere. Quando invece il ragazzo giungerà nel mondo industrializzato, le macchine diverranno enormi bestie pericolose che mangiano e distruggono tutto ciò che gli si trova in fronte: il pericolo è ovunque.

La Metropoli(s) è simbolicamente una sorta di piramide, dove il poco benessere sta in alto e la povertà dilagante in basso, nella favela. Dal film emerge anche una riflessione sulla condizione dell’umile lavoratore nell’era industriale: l’alienazione dell’uomo di cui parlava già Chaplin nel 1936 è resa in modo molto efficace grazie a inquadrature larghe e schematiche, dai tratti rigidi e i movimenti meccanici.

Insomma due mondi all’interno dello stesso pianeta, uno colorato e l’altro cupo. I poli opposti prendono le fattezze di due grandi uccelli, combattono e quello nero, armato, sembra avere la meglio sul rivale. Nonostante l’autore sia intenzionato a restituire anche una visione scura, degradata e disillusa del mondo e quanto potenziale autodistruttivo possa avere il genere umano, il messaggio finale sarà comunque di speranza. L’uccello colorato risorgerà dalle ceneri come l’araba fenice e riporterà l’allegra melodia nel mondo.

 

Stefano Careddu