Anni fa, quand’ero ancora iscritto all’università, mio padre mi fece ascoltare una canzone di Gianfranco Manfredi, Ma chi ha detto che non c’è, tratta da Ma non è una malattia, un disco del 1976 composto da Manfredi insieme a Ricky Gianco. Ricordo che mi piacque molto l’ironica complicità con cui il cantautore di Senigallia elencava parole d’ordine, speranze generazionali e luoghi comuni della contestazione e della controcultura degli anni Settanta.

Ancor più mi piacque l’indefinitezza in cui titolo e ritornello lasciavano la cosa che, contrariamente a quanto si poteva credere, invece c’è (o, meglio, c’era), perché «sta nel fondo dei tuoi occhi / sulla punta delle labbra / sta nel mitra lucidato / nella fine dello Stato», come recita l’ultima strofa. Si tratta della felicità? Della rivoluzione? Dell’utopia, durata un decennio e forse più, di un mondo diverso? O piuttosto della fine di quell’utopia?

Tornai spesso al brano per qualche giorno, poi passai oltre, e non credo di averlo ascoltato ancora fino a pochi giorni fa, quando ne ho ritrovato alcuni versi tra le prime pagine de L’aspra stagione, il libro di Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale dedicato a Carlo Rivolta e al racconto giornalistico dell’Italia tra il ’76 e l’82 – libro che ha ispirato il progetto de La generazione perduta, l’ultimo documentario di Marco Turco, scritto dal regista con Vania Del Borgo e Wu Ming 2.

Attraverso materiali d’archivio, spezzoni d’altri documentari e nuove interviste, il film ricostruisce la vita e il mestiere di Carlo Rivolta, cronista di «Paese Sera», poi di «Repubblica» e infine di «Lotta continua», autore di inchieste sull’Autonomia operaia e sul mercato della droga, morto durante una crisi di astinenza da eroina nel febbraio 1982, a trentadue anni. Per il giornale di Scalfari, sin dalla fondazione e fino alla rottura con la redazione Rivolta documentò il fervore e la crisi del movimento studentesco, la violenza nelle periferie romane, la lotta armata e le sue ricadute nella società civile e nella politica dei partiti, il dilagare della tossicodipendenza tra i giovani, insomma la transizione da quella “rivoluzione che viene” che chiamiamo Settantasette al riflusso degli anni Ottanta, dovuto (anche) alla repressione carceraria e alla diffusione dell’eroina.

Sulla base delle testimonianze degli affetti, degli amici e dei colleghi (tra cui spicca per empatia quella di Enrico Deaglio, all’epoca direttore di «Lotta continua») e soprattutto grazie agli stralci dei diari di Rivolta ritrovati dallo zio e letti da Claudio Santamaria, La generazione perduta restituisce con grande lucidità il profilo di un cronista balzacchiano, affamato di storie e contatti umani, capace come nessun altro di raccontare in presa diretta quei fenomeni e quei fatti dal centro del magma che li generò; ma anche il ritratto di un ragazzo generoso e fiero, pronto a rivendicare una forma privata di nichilismo e segnato da un «coraggio dettato dalla disperazione»: con queste parole lo descrive nel libro Francesca Comencini, che frequentò Rivolta nei suoi ultimi anni ma non ha partecipato al documentario, probabilmente perché aveva già portato al cinema il loro amore nel suo esordio dell’84, Pianoforte.

A partire dalla scelta del titolo, un po’ Hemingway un po’ Venditti, Turco tenta un’operazione sineddochica, estendendo appunto alla vitalità e al disorientamento della generazione di chi aveva tra i venti e i trent’anni a metà dei Settanta il caso particolare di Rivolta, infaticabile e brillante giornalista dal look gruppettaro che, dopo la morte di Moro, faticò a trovare motivi per non «disertare» (è il verbo che usa in un articolo dell’80) l’informazione, e poi la vita stessa.

Considerata anche la durata contenuta e l’uso abbastanza canonico della voice over, il regista non riesce a mantenere una prospettiva così ampia sul periodo in questione, e difatti non manca qualche passaggo retorico funzionale a semplificare tanto le formidabili passioni postsessantottesche quanto le origini dei drammi individuali e delle sconfitte collettive, oltre a una sequenza veramente discutibile che dovrebbe simulare gli effetti di un “buco di roba”.

Insieme alle musiche elettrificate di Theo Teardo e Lorenzo Corti, la parte più significativa de La generazione perduta sta piuttosto «nel discorso trasparente», per citare ancora Manfredi: perché Turco e la montatrice Annalisa Schillaci sono stati in grado di rendere davvero limpidi i filmati di strada, le foto di famiglia e quindi i ricordi di Rivolta, sovrapponendoli tra loro e recuperando per altro il meglio del documentarismo e della televisione italiani del passato (memorabili le riprese di Alberto Grifi dal Festival del proletariato giovanile a Parco Lambro nel ’76, e l’intervista sulla tossicodipendenza di Rony Daopulo a Lilli Carati, già protagonista di Avere vent’anni di Fernardo Di Leo).

In questa trasparenza filmica, che non prevede facili giudizi o schieramenti aprioristici, c’è ancora spazio per le ragioni personali di chi si votò all’estremismo, eversivo oppure oppioide che fosse. Resta da capire se nella memoria di quelle immagini, senza bisogno di trovargli un nome, sopravviva ciò che in quegli anni tanti hanno cercato, per cui molti hanno combattuto e alcuni sono morti, quella cosa che, di certo, c’è stata.