La ragazza in vetrina è forse il miglior film di Luciano Emmer, e anche quello che gli ha procurato più guai, l’ottusità della censura ha malamente castrato un’opera che tratta il tema della prostituzione con pudore ed estrema sensibilità.
Emmer racconta del primo viaggio fatto assieme alla moglie Tatiana e al figlio quattordicenne nella città di Amsterdam per andare a studiare da vicino le ragazze in vetrina in quello che oggi è diventato il celebre quartiere a luci rosse e che nel 1960 “ appariva tutto fuorché un bordello all’aria aperta”; originariamente le donne davano ospitalità ai marinai di ritorno da lunghi viaggi e ancora si respirava quell’atmosfera famigliare: “Con una castità assoluta sfilavano davanti ai nostri occhi (forse avranno pensato a una famiglia di pervertiti, comprendente un uomo una donna ed un figlio giovane) le ‘casalinghe in vetrina’. La prima che vidi era intenta a lavorare un calzino a maglia con i ferri, più oltre una stava sorbendo una tazza di tè – un’altra teneva sulle ginocchia un gatto soriano che sicuramente faceva le fusa mentre era accarezzato. (…) ‘Fare sesso’, come si usa volgarmente dire oggi, era l’ultimo dei loro pensieri”. (Mister(o) Emmer, a cura di Stefano Francia di Celle e Enrico Ghezzi, Torino 2004)
Il regista conosce queste ragazze, Ankie e Cori, così si chiamavano due prostitute che lavoravano a turno nella stessa vetrina, divengono le sue sceneggiatrici: “Purtroppo non figurano nei titoli di testa – ma erano due collaboratrici indefesse che passavano tutte le mattinate con me soprattutto a suggerirmi i dialoghi in un misto di olandese e inglese”.
Se da una parte Emmer si accorda con la malavita locale pagando i protettori delle ragazze per poter girare il film (25 fiorini a notte per ogni vetrina) senza interrompere la loro attività che deve proseguire anche durante le riprese, dall’altra, nonostante gli accordi presi, sono diversi gli incidenti che lo vedono protagonista. Una sera Emmer viene spinto in un canale da uno di questi uomini, durante il processo, che si svolge il giorno seguente, un’assurdità per chi è abituato alla legge italiana, nega di aver riconosciuto il suo aggressore, questo per ringraziarlo di avergli evitato la prigione redige un contratto “di quattro pagine, in carta intestata (con il timbro)” in cui si impegna a corrispondere al signor Luciano Emmer il 50% degli incassi di un anno della vetrina. Emmer sfortunatamente perderà quel pezzo di carta.
Nel 2003, Emmer, che ha scoperto di avere origini olandesi (Emmer o Emer è un cognome di quel paese, indica un mastello di legno), torna a visitare il quartiere delle vetrine, la versione originale del film viene proiettata sulla Nieuwmarkt plein, occasione che gli vale la nomina di membro d’onore dell’associazione delle prostitute, ma la delusione dovuta al drastico cambiamento dei luoghi delle riprese, snaturati da una esasperante mercificazione del corpo, è grande: “È nato un nuovo tipo di vetrina, nei vicoli stretti, (poco più di due metri) che una volta servivano per i bidoni dell’immondizia; ora sono percorsi da una folla di turisti curiosi. Sui due lati sono stati praticati tanti piccoli fori, uno accanto all’altro, delle dimensioni di una piccola porta a vetri. Dentro in poco più di un metro quadrato – illuminato da una tenue luce spiovente rossa – sono schierate in piedi, quasi immobili, per il poco spazio concesso a ciascuna, le ‘nuove’ ragazze in vetrina, stile Anni Novanta. (…) Non capisco a questo punto perché non le sostituiscono con tante Barbie: non se ne accorgerebbe nessuno. Che storia avrei immaginato allora: l’amore di una bambola con un robot?” (Luciano Emmer, Quel magico lenzuolo blu, Mantova 1997)
Emmer spiega che il produttore gli propone un’altra storia sui compatrioti costretti a emigrare nelle miniere del Nord Europa, a questo punto la sceneggiatura avrà come protagonisti una prostituta (Marina Vlady) e un giovane minatore di Lendinara (Bernard Fresson): “Lasciati andare al tuo istinto – racconta una storia più romantica possibile”, gli consiglia Pier Paolo Pasolini, con il quale si reca ad Amsterdam per fare dei sopraluoghi e il suo nome compare tra gli sceneggiatori del film.
Non sono solo le vetrine delle ragazze a catturare l’attenzione del regista che vuole visitare di persona le miniere in Francia, Belgio e Olanda, perlustrando gli abissi di una realtà poco nota di cui si è parlato molto in Italia dopo la tragedia di Marcinelle: “Mi terrorizzò l’ascensore in Francia, un grosso cubo di metallo chiuso come una bara, mi confortò invece quella gabbia aperta e traballante in una miniera in Belgio poco distante da quella dove era accaduto il disastro di Marcinelle.
La discesa fino a 1000 metri di profondità non mi faceva paura: il quadrato della luce che si restringeva, mentre scendevamo, a un piccolo punto luminoso per sparire nel buio assoluto mi sembrava un fatto naturale, come se la morte mi accogliesse fra le sue braccia. La risalita, quando dal buio nasceva il punto luminoso, era come nascere di nuovo alla vita. Sono le immagini che hanno accompagnato tutta la mia vita senza dover ricorrere a più o meno filosofiche considerazioni sul significato della nostra breve permanenza su questo pianeta”. Nella lucida ed efficace visione di rinascita dalle tenebre, così ben rappresentata dal saliscendi dell’ascensore nel film, ritroviamo quel luogo “sotterraneo e immaginario nel quale il silenzio e l’oscurità del mondo di sotto vengono illuminati dagli echi del mondo di sopra”, questo è il sottotitolo che illustra Le carceri di invenzione (2009), un cortometraggio nel quale Emmer ripropone le XVI acqueforti di Giovan Battista Piranesi. All’ombra delle architetture impossibili delle Carceri, esaltazione della grandezza delle rovine fantastiche delle vestigia romane ed etrusche, udiamo il rumore assordante delle mitragliatrici, delle esplosioni, il moto perpetuo delle carrucole e delle apparecchiature (torture), il suono sordo dei crolli e le urla di uomini interrotte dal canto ristoratore degli uccelli che si fa strada tra i pochi pertugi da cui filtra la luce… La miniera immaginata da Emmer rispecchia perfettamente le prospettive d’ombra rappresentate da Piranesi, l’immaginazione drammatica dell’artista ha partorito un mondo del caos “in espansione perpetua. Dietro queste sale dagli spiragli muniti d’inferriate noi sospettiamo altre sale affatto simili, dedotte o deducibili indefinitamente in tutte le direzioni immaginabili. (…) Questo mondo aggomitolato su se stesso è matematicamente infinito”. (Marguerite Yourcenar in Giovan Battista Piranesi. Le Carceri, a cura di Mario Praz, Milano 2011)
Dopo il divieto di girare a Marcinelle e scoraggiato dalle impeccabili gallerie dei “pozzi” olandesi, poco adatti a rappresentare un luogo claustrofobico, Emmer decide di costruire nel teatro di posa Cinetone di Amsterdam, una sorta di Cinecittà, i cunicoli che attraversano le viscere della terra nei quali ambienta il dramma del lavoro nelle miniere di carbone, nonché le scene più toccanti dell’intero film.
“Qui la paura non esiste, andiamo al fronte!”, con questa frase inizia la discesa agli inferi dei minatori, i corridoi nei quali strisciano i corpi anneriti dal carbone non sembrano così distanti dalle trincee di fango e filo spinato, il rumore assordante del martello pneumatico sostituisce la mitragliatrice e scandisce il ritmo di una guerra di posizione che avanza nelle profondità della terra, interrotta dallo scoppio del grisou che miete vittime quanto un raid aereo.
Il rapporto di fraterna amicizia che si instaura tra Vincenzo (Bernard Fresson), giovane e inesperto minatore, e il più maturo e navigato Federico (Lino Ventura) richiama alla mente la complicità e l’affetto che legano il veterano Kat (Louis Wolheim) e la recluta Paul (Lew Ayres) nel film All’Ovest niente di nuovo (1930). Come Paul anche Vincenzo, dopo aver vissuto l’estrema precarietà dell’esistenza, decide di rimanere “al fronte” conservando quella che forse è solo un’ingenua speranza di cambiamento; le Carceri abitate dalla coppia di amanti ne La ragazza in vetrina non precludono ai protagonisti la possibilità di idealizzare il proprio futuro, nonostante si presagisca un finale poco lieto, è da escludere comunque la tragica apparizione della farfalla che annuncia la morte di Paul…
Oltre ai brutali tagli della censura che hanno alterato la trama de La ragazza in vetrina, come quel “no kiss” pronunciato dalla prostituta ed eliminato snaturando il significato del finale del film, il direttore dello spettacolo presso il ministero propone a Emmer venti milioni (di allora) per rigirare una scena: “Suggeriva di lasciare apparire Marina Vlady completamente nuda e forse di mostrare l’amplesso al posto della castissima scena da me girata. A condizione che dopo l’amplesso lei scorgesse su un giornale la fotografia del giovane minatore, con la notizia che era rimasto sepolto nella miniera per tre giorni resistendo alla disperazione (…) la ragazza allora doveva mettersi a piangere, dicendo ad alta voce ‘Tu sei stato un eroe io sono una miserabile prostituta’. Per la chiesa cattolica il peccato della carne è il più venale – quello che conta e non si può infrangere è l’ipocrita moralismo”.
Alla censura però, ci tiene a sottolinearlo Emmer, è sfuggito un dettaglio piuttosto rilevante, l’ultima battuta fulminante di Federico/Lino Ventura che, da bravo parmigiano, si lascia andare scherzando con Vincenzo sul suo cambio di programma e la rinuncia a partire per l’Italia con la scusa di aver dimenticato la valigia: “Chiamala valigia… sai come si chiama al mio paese? La brugna!”.