Regista e sceneggiatore tra i grandi dimenticati del cinema italiano a cavallo del boom economico, Antonio Pietrangeli è stato uno dei più acuti osservatori dell’evoluzione dei costumi nazionali e in particolare la figura femminile, come testimoniano il suo capolavoro Io la conoscevo bene e i meno celebrati Il sole negli occhi, Nata di marzo, Adua e le compagne, La parmigiana, La visita. Pietrangeli dedica al tema metà della sua produzione artistica, affrontato sempre senza condanne né moralismi, con arguzia, sensibilità e un’empatia che fa delle sue eroine modelli tragici di una modernità che fatica ad affermarsi in un contesto socioculturale ancora retrogrado, nonostante le apparenti aperture.

Sono figure destinate alla sconfitta, chi morale chi fisica, che incarnano però le aspirazioni di una generazione e una categoria di genere da sempre svantaggiata nei diversi ambiti in cui si trova ad agire (lavoro, famiglia, affetti), ma che cerca strenuamente di difendere e affermare un’identità diversa dalle etichette associate da pregiudizi e stereotipi. È questo il caso di Pina, ormai non più giovane nubile di provincia che cerca l’amore per corrispondenza, speranzosa di poter svoltare così una vita troppo costretta nell’ambiente chiuso della campagna emiliana. L’occasione pare proporsi con Adolfo, un uomo di città sensibile, pacato, gentile e rispettoso ma che da subito si rivelerà tutt’altro.

La visita condensa l’incontro tra i due nell’arco di una sola giornata, lungo la quale si sviluppa una conoscenza che va ben oltre l’apparenza, arrivando ai più profondi aspetti dei rispettivi caratteri. Con un intimismo da cinema francese (si pensi alla raffinatezza emotiva di Partie de campagne di Renoir), il regista tratteggia i protagonisti attraverso i loro silenzi, sguardi, sorrisi e altre espressioni più eloquenti di qualsiasi dialogo, spesso invece vacuo e di circostanza. Un lavoro di sottrazione sottolineato anche dalla struttura del racconto a focalizzazione esterna che, attraverso alcuni flashback interiori, mette a conoscenza lo spettatore – ma non l’altro personaggio – dei reciproci 'non detto'.

Se Adolfo, stordito dall’eccesso di vino bevuto con ingordigia durante la giornata, dà il peggio di sé, Pina mantiene tutta la sua amara dolcezza, sempre più rassegnata a una realtà degradante, vissuta tra il paese dov’è oggetto di battute e volgarità legate al suo fisico troppo generoso, e la casa di famiglia, emblema di una superiorità di ceto agognata quanto goffamente esibita. Il frigorifero, la televisione a specchio, il registratore, i classici della letteratura acquistati in stock assieme alla scaffalatura cozzano con i tratti più campagnoli: gli animali, l’orto, il vecchio mobilio, la stanza della frutta, le feste campestri e quel crinale adiacente alla villetta sul quale simbolicamente si tiene in equilibrio, per non sprofondare, cedendo a una depressione che saprebbe di sconfitta. Com’è già invece per le figure che gravitano attorno a lei: il matto Cucaracha, la domestica Angelina e la nipotina ninfetta Chiaretta o l’ammogliato camionista Renato con cui Pina ha una relazione segreta, patetiche e guitte figure pronte sempre a prendere qualcosa, alla stessa maniera di Adolfo che tornerà alla sua vita certo di non rivedere più la ragazza.

Ma Pina resta superiore. È lei che, nelle delicate ma ferme parole che pensa nella sua testa nel finale, esprime i già delineati confini di questo legame, troppo superficiale per lei, per le sue aspettative e desideri. Sì ne esce delusa, ma se questo smacco fosse la spinta verso una più matura consapevolezza?