Distribuito in Italia con il brutto, ma funzionale, titolo Sotto la sabbia, Land of Mine esce da una delle vetrine festivaliere più importanti al mondo: il Toronto International Film Festival. Un film danese diretto da un regista Martin Zandvliet, ambientato all’indomani del secondo conflitto mondiale, in Danimarca. I nazisti erano convinti per qualche ragione che gli Alleati sarebbero sbarcati sulle coste danesi, così minarono gran parte delle spiagge del Paese. Lo sbarco, come ben noto, avvenne in Normandia e le migliaia e migliaia di mine rimasero inesplose. Ad occuparsi della bonifica di queste spiagge furono i prigionieri tedeschi.

 

Zandvliet racconta la storia di quattordici giovani che si trovano a dover sgomberare una di queste spiagge, sotto la supervisione di un sergente danese, Rasmussen egregiamente interpretato da Roland Møller. L’indagine riprende il rapporto vittima/carnefice, tanto dibattuto nelle dissertazioni filosofiche (e non) post-belliche. Rimanendo in superficie risulterebbe molto semplice ed immediato, specialmente a fine guerra, far di tutta l’erba un fascio, generalizzare all’estremo e considerare qualsivoglia soldato tedesco responsabile del genocidio nazista, mortificarlo e percuoterlo a sangue solamente perché non considerato degno di stringere tra le mani una bandiera che non è quella del suo Paese.

È proprio questa la prima azione che compie il sergente Leopold Rasmussen nella propria esistenza filmica, nel momento in cui lo spettatore è ancora ignaro di quale sia la natura di quest’uomo. Mano a mano che avanza la narrazione il cerchio si stringe, gli elementi in gioco si riducono a poco più di una dozzina, la lente del regista si avvicina ai corpi e ai visi di questi ragazzi-soldato, provando a restituire ad ognuno le peculiarità che la spersonalizzazione messa in atto dalle atrocità del conflitto aveva negato. È un film “corale”, la narrazione coinvolge la totalità del battaglione di bonifica e riserva uno sguardo particolare al sergente Rasmussen che (come ovvio già dal trailer) subirà un’incisiva mutazione personale, permettendo a una storia che parte da presupposti funesti di svilupparsi e giungere a punto d’arrivo in cui la speranza forse potrà avere la meglio, o comunque riuscirà a rimanere viva, anche se flebile luce in fondo al tunnel.

Un viaggio all’interno dell’animo umano, sull’importanza della profondità e dell’eliminazione del pregiudizio e del preconcetto nei rapporti interpersonali: anche se un’ovvietà, il regista vuole dirci che questa è l’unica reale via per mettere fine ai conflitti che tutt’oggi angustiano il nostro mondo e, seppur rischiando di cadere nel retorico, è una bambina a rompere queste barriere così alte e insormontabili per gli adulti, quanto inesistenti per chi possiede ancora il dono dell’innocenza.

Lo spettatore è coinvolto visceralmente grazie a una sapiente messa in scena e da un senso di suspense che in alcuni momenti fa trattenere il respiro: il boato delle esplosioni, non lascia spazio a nessun altro suono, ovattando il mondo esterno, mettendo il commento sonoro a pieno servizio dell’impatto visivo e potenziandolo ulteriormente.

Tutto reso piacevole agli occhi da una location mozzafiato, una spiaggia invitante che nasconde l’inferno a poche decine di centimetri di profondità e inibisce il raggiungimento del mare simbolo di libertà e sconfinatezza per antonomasia.

 

Stefano Careddu