Il regista bresciano Silvano Agosti rimane tutt’ora uno dei più grandi e indecifrabili outsider del cinema italiano: una scheggia impazzita, un autore che in realtà definire semplicemente “regista” è riduttivo, essendo un intellettuale a tutto tondo la cui attività culturale spazia dal cinema (film a soggetto e documentari) alla scrittura e alla filosofia (romanzi, saggi e poesie), che lui vede come un unicum di un grande sistema di pensiero. Ma è anche un rinomato agitatore culturale, con la sua storica attività della sala cinematografica romana Azzurro Scipioni. Parliamo di un regista orgogliosamente “contro”: contro il sistema (poiché la sua attività è sempre connessa alla militanza politica di sinistra), contro il Potere, persino contro il cinema inteso nella sua connotazione più classica e conformista.
Dunque un ribelle, un anticonformista, un autore che punta sempre allo scandalo, e le cui opere – qui parliamo specificamente dei film – trasudano da ogni immagine la necessità di una ribellione sociale, politica, culturale: pensiamo alle sue opere sulla pazzia, sull’amore e la sessualità, sulla politica, sulla vita, sulla religione. Non è esagerato ascrivere Agosti a quella sorta di Nouvelle Vague italiana che prese piede negli anni Sessanta per poi proseguire nei decenni successivi: e non è un caso, infatti, che durante la frequentazione del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma – dove si diplomò nel 1962 – aveva come compagni di studi altri due grandi e più celebri “ribelli” del cinema italiano, Liliana Cavani e Marco Bellocchio, per il quale realizzò il montaggio de I pugni in tasca con lo pseudonimo di Aurelio Mangiarotti e con cui co-diresse il documentario Matti da slegare. Una carriera proseguita poi sempre e volutamente lontano dai riflettori, tanto che i suoi film rappresentano spesso oggetti alieni e abbastanza rari.
A ripescare due suoi gioielli ci ha pensato MUBI, che da qualche tempo ha in catalogo le versioni restaurate (ad opera dell’Istituto Luce – Cinecittà) dell’epicorico e semi-autobiografico Uova di garofano (1991) ma soprattutto di uno dei suoi film più estremi e rappresentativi, Nel più alto dei cieli (1977): un’opera da teatro dell’assurdo dove confluiscono la satira anti-clericale, un’impietosa analisi dell’uomo, il surrealismo di Buñuel e Ferreri, persino certi caratteri estremi che sembrano rievocare il Salò di Pasolini. Perché il surrealismo è proprio una delle correnti culturali che più influenzò Agosti, soprattutto nei suoi primi film, tanto che il suo lungometraggio d’esordio, Il giardino delle delizie (1967) è una storia d’amore che si trasforma in un concentrato di suggestioni buñueliane, fra incubi, deliri e sequenze oniriche. Seguì l’allucinato N.P. – Il segreto (1971), una satira fantapolitica (persino kafkiana in certi momenti) e semi-fantascientifica, in cui un ingegnere inventa una macchina che converte la spazzatura in cibo, finendo poi per essere sfruttata dallo Stato contro le masse. I temi sono evidenti, in quella che è un’acuta analisi sociologica marxista mascherata da satira feroce: gli industriali reazionari opposti a quelli illuminati, il potere dello Stato, lo sfruttamento del proletariato, la meccanizzazione disumana della società.
Nel 1977, Agosti decise di virare verso un altro apologo dal sapore kafkiano, che a differenza del precedente parte da una situazione realistica per poi precipitare inesorabilmente in una deformazione grottesca e parossistica della realtà stessa, un film coraggioso (come tutto il cinema di Agosti) che seguendo la lezione di Pasolini ha il piacere di scandalizzare lo spettatore. Il regista scrive come al solito soggetto e sceneggiatura, affidandosi per quest’ultima alla collaborazione di Francesco Costa e Stefano Rulli. La vicenda è ambientata nella Roma contemporanea, dove un gruppo eterogeneo di 14 persone si ritrova per recarsi a un’udienza presso il Papa: ci sono alcuni borghesi, un sindacalista marxista, un onorevole, un Monsignore, alcune suore, un sacerdote e due ragazzini. Una volta raggiunti i Palazzi Vaticani, salgono sull’ascensore che li deve portare presso l’ufficio di Sua Santità, ma il mezzo si blocca all’improvviso. Dopo alcuni vani tentativi di mettersi in contatto con l’esterno, le relazioni all’interno del gruppo si fanno sempre più difficili e imprevedibili, fra aggressioni, omicidi, stupri e una progressiva riduzione allo stato ferino.
La definizione è talvolta abusata, ma Nel più alto dei cieli è davvero un film alieno, un gioiellino nerissimo del cinema d’autore italiano – quel cinema autoriale lontano dalle luci della ribalta, bensì più nascosto e segreto, e proprio per questo così affascinante. A differenza dei film precedenti di Agosti, questo non ha protagonisti principali né attori famosi, ma una serie di personaggi interpretati da noti caratteristi – visti più volte sia nel cinema d’autore sia nel cinema di genere – accanto ad altri attori semi-sconosciuti, tutti però coi volti perfetti per i rispettivi e deformanti ruoli, in un microcosmo umano che forma un piccolo trattato sociologico sui generis. Esclusa la parte introduttiva – ambientata in una Roma quasi spettrale tappezzata di manifesti e murales inneggianti al comunismo (la filosofia di sinistra di Agosti emerge capillarmente in quasi tutti i suoi film) – e la conclusione (onirica?), quasi tutto il film è ambientato in una sola unità di tempo, cioè l’ascensore, con le pareti di un bianco asettico e abbacinante dove campeggia una gigantesca insegna del Vaticano, un bianco opposto tanto al colore variegato degli abiti dei protagonisti quanto al barocco degli uffici Vaticani (ricostruiti) che si vedono in alcune scene: la peculiare fotografia è di Claudio Tondi, mentre è curioso notare come le ricercate scenografie siano opera di Massimo Antonello Geleng, un artista che in seguito diventerà famoso per le scenografie di molti film horror, fantasy e sci-fi italiani.
L’introduzione ha la funzione di passare in rassegna i personaggi, in particolare il Monsignore definito un “cattolico marxista” e il sindacalista comunista che attende invano gli operai da portare dal Papa, ma senza darci modo (volutamente) di affezionarci in modo particolare a nessuno di loro, che agiscono tutti da comprimari in una sfilata di grottesca umanità: prima nella foto di gruppo sullo sfondo del panorama romano, poi nella presentazione di ciascuno a un cardinale dentro il palazzo (sorvegliati da monitor che ricordano i macchinari di N.P. – Il segreto), infine con una serie di taglienti performance in quello che è il cuore della storia, ansiogena e claustrofobica, tutta ambientata in questo ascensore sospeso in una sorta di limbo, fino alla conclusione che lascia all’interpretazione dello spettatore stabilire che cosa sia vero e che cosa sia frutto dell’immaginazione.
Una vicenda che richiama, per certi versi, il più celebre e precedente L’udienza (1972) di Marco Ferreri, un apologo dichiaratamente kafkiano (è ispirato al romanzo Il processo di Franz Kafka), anche se è difficile dire se vi sia stata o meno un’influenza diretta di Ferreri su Agosti. Ferreri metteva in scena le peripezie di un uomo comune (Enzo Jannacci) che vuole a tutti i costi farsi ricevere in udienza dal Papa, senza però riuscirci a causa della rigida burocrazia Vaticana che lo conduce attraverso i personaggi più disparati, quali un commissario di polizia, un nobile, un Monsignore e una prostituta. Nel più alto dei cieli eredita, in un certo senso, il fulcro della vicenda e la rassegna di personaggi grotteschi. Se però la regia di Ferreri agiva per somma, accumulando una serie di situazioni e protagonisti (interpretati da grossi nomi del cinema) che si avvicendano e si sovrappongono senza sosta in varie location e lassi di tempo, la regia di Agosti fa il contrario, cioè agisce per sottrazione, raggruppando i protagonisti in un’unica unità di spazio e di tempo.
Dunque, ci troviamo di fronte a una trama minimalista, dove è l’inventiva della sceneggiatura e la creatività della regia a rendere avvincente – e quasi carica di suspense – la storia di circa 90 minuti. Tutto precipita pian piano da una situazione apparentemente comune a un’altra dove tutto è irreale, sospeso nel tempo, come in un sogno (e forse è proprio tale): l’ascensore sembra continuare a salire (“nel più alto dei cieli”, una locuzione che è innanzitutto una chiara satira delle istituzioni ecclesiastiche), poi pare fermarsi, scatenando il panico – c’è una scena ironica dove la suora più anziana (Clara Colosimo), durante un momentaneo black-out della luce, presa dal panico inizia a chiamare “mamma”. Si premono tutti i pulsanti, si cerca di forzare la porta con gli oggetti a disposizione, si alza la tappezzeria fino a scoprire una botola che precipita nel vuoto, ma tutto è inutile.
Silvano Agosti ha così modo di passare in rassegna i vari personaggi, che discutono delle cose più disparate ma anche dei rapporti fra comunismo e cattolicesimo, e i doni che portano al Papa – spesso carichi di satira, quale Il capitale di Karl Marx scritto e rilegato come un libro religioso – mentre la follia prende sempre più piede. Il primo a lasciarci la pelle è il sindacalista (Alberto Cracco) – forse un allarme sulla lotta comunista che rischia di soccombere? – colpito alla testa da un oggetto sacro mentre cercava di strangolare una suora (Marcella Michelangeli) in un raptus di follia. Dopo di che, succede di tutto, nel progressivo sprofondare dei presenti in uno stato belluino dove ogni inibizione e tabù sono infranti. C’è il prete (Antonio Piovanelli) che inizia a masturbare con un piede la ragazzina mentre si masturba a sua volta, per poi violentarla ed essere trascinato via a forza e legato dagli altri – chissà se Agosti aveva già in mente gli scandali sessuali della Chiesa. Nel frattempo, scorrono a contrasto le omelie cattoliche e le musiche di chiesa trasmesse dall’altoparlante nell’ascensore (è evidente l’opposizione fra ciò che la religione cristiana predica e le azioni compiute dai fedeli in uno stato di difficoltà), accanto alle musiche (extra-diegetiche) di Nicola Piovani: sonorità volutamente ripetitive che richiamano quasi il Morricone argentiano, note dolci, malinconiche ed evocative come nenie infantili.
La veglia funebre del sindacalista diventa una sorta di rito sacrilego, il vino e le ostie consacrate vengono usate come cibo, c’è persino un tentativo di esorcismo, mentre le pareti (così come i personaggi) si ammorbano e il bianco abbagliante lascia spazio a un grigio cenere. Le inibizioni sessuali vengono meno, comprese quelle della signora borghese (Francesca Romana Coluzzi), anche le suore si accoppiano con gli uomini, fino a quando la necessità di sopravvivere spinge il gruppo a infrangere il più profondo tabù, e sacrifica un medico (Edy Biagetti) per cibarsi delle sue carni. Il prete pedofilo offre i suoi escrementi come cibo, mentre i superstiti iniziano a uccidersi fra loro. Questo uso estremo e radicale delle immagini fa pensare, come si diceva, al Pasolini di Salò e alle opere più anarchiche di Buñuel e Ferreri, anche se Agosti ferma la macchina da presa un attimo prima del “delitto”: non mostra cioè direttamente l’atto cannibalesco o coprofago, ma ce lo fa percepire ugualmente in tutto il suo disgusto e la sua puzza attraverso le bocche insanguinate, gli abiti strappati, i corpi sudati, sporchi e abbrutiti in quello che diventa una specie di ammasso informe di carne umana, piena di sangue, ferite e sterco. Ed è proprio la regressione allo stato animale che Ferreri vuole mettere in mostra attraverso questa deformazione parossistica, cioè la demolizione di ogni immagine dell’uomo come creatura buona che la sociologia, la filosofia (“l’animale sociale” di Aristotele) e il cristianesimo predicano da sempre.
C’è poi il criptico e onirico finale, in cui prima il Papa compare quasi come una creatura soprannaturale alla donna morente, per poi staccare immediatamente sull’inquadratura successiva dove vediamo il gruppo uscire dall’ascensore, tutti in perfetto stato, come se nulla fosse successo: ora sono pronti a incontrare il Papa, che infatti appare ancora brevemente in una scena – e raffigurare un Papa, sia pure immaginario, al cinema, era per l’epoca uno scandalo, ma del resto l’intero film è uno scandalo. Dunque, tutto ciò che abbiamo visto è stato un incubo? Oppure è questa conclusione a lieto fine a essere un sogno? Oppure ancora sono giunti “nel più alto dei cieli”, cioè in Paradiso? Inutile cercare spiegazioni, poiché il cinema di Silvano Agosti non dà mai risposte, ma solo interrogativi e potenti spunti di riflessione, mettendo qua alla berlina in modo parossistico e feroce i vizi della classe borghese, nascosti sotto un’aura di religiosità e perbenismo.